La verité d’abord»: stanno in questa frase l’alfa e l’omega della lettera aperta al presidente della Repubblica francese che Émile Zola pubblicò il 13 gennaio 1898 sul quotidiano di Parigi L’Aurore, che denunciava – dietro l’Affaire Dreyfus – «l’odioso antisemitismo di cui la grande Francia liberale dei diritti dell’uomo morirà, se non ne guarisce».

«Se insisto – ribadiva Zola – è perché qui sta l’uovo dal quale uscirà poi il vero delitto, la spaventosa negazione di giustizia di cui la Francia è malata». Certo, il confronto è impietoso. Ma «la verità prima di tutto» non pare l’urgenza più intima di Paolo Mieli nel suo recente allarme antisemitismo («Gli sfregi contro gli ebrei e i silenzi di troppa sinistra», Corriere della sera di ieri).

Mentre ai tempi di Dreyfus, argomenta Mieli, «gli stendardi dell’odio contro gli ebrei erano ben saldi nelle mani della destra», oggi «in tutti i paesi d’Europa l’asta di quelle bandiere è impugnata da mani di sinistra».

Ecco: i dati del Rapporto sugli incidenti antisemiti registrati nell’Ue negli ultimi tempi, a cura dell’Agenzia dell’Unione europea per i Diritti fondamentali, sono tanto massicciamente a sfavore di questa tesi (a fronte di alcune migliaia di «incidenti» con «motivazione politica di destra» corrisponde nella tabella relativa alla «sinistra» una cifra di alcune decine) che bisognerà intendere questo allarme come riferito non tanto alla crescita degli effettivi, inquietanti episodi di antisemitismo che si sono verificati in Europa, quanto alle grandi manifestazioni europee (e americane) contro l’eccidio dei civili palestinesi a Gaza.

Del resto, Mieli si era già prodigato di accuse quando scrisse che l’onda antisemita dalle proporzioni preoccupanti «ha trovato eco addirittura al vertice delle Nazioni Unite»: si riferiva alle dichiarazioni del Segretario generale Antonio Guterres, che aveva denunciato, a Gaza come negli altri territori, il fatto che i palestinesi per 56 anni «hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e piagata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le case demolite».

Com’è noto, il gentiluomo portoghese era stato perciò investito da accuse corali di antisemitismo, nonostante avesse introdotto e concluso le sue parole con la «condanna inequivoca» degli «inauditi e orripilanti atti di terrore compiuti da Hamas», che «nulla può giustificare».

La redazione consiglia:
La «prudenza» araba: embargo sì, boicottaggio no

E allora diventa chiaro che «l’asta delle bandiere» dell’antisemitismo «impugnata da mani di sinistra» è, fuor di metafora in questa sconcertante identificazione, l’asta delle bandiere palestinesi, che hanno sventolato su tutte le piazze d’Europa.

Vorrei fare, a questo proposito, due considerazioni. La prima è che c’è voluto ben poco ad assolvere gli eredi politici dei partiti fascisti d’Europa dall’antisemitismo che bevvero insieme al latte: è bastato un abbraccio a Netanyahu, o il sostegno gridato a una politica di “autodifesa” che non ne vuole sapere dei principi di distinzione e proporzione, dei vincoli insomma che distinguono l’umanità civile dal fondo arcaico e ferino che ribolle in noi sotto le leggi che ci siamo dati. Come mai?

La seconda considerazione riguarda un fenomeno molto più grave. C’è un’evidente e colpevole identificazione tra l’antisemitismo e la critica di quegli aspetti del sionismo politico – anche liberal, purtroppo – che da più di mezzo secolo seppelliscono nel buio della rimozione, in Israele e in tutto il cosiddetto occidente, i fatti menzionati da Guterres. Con parole di Edward Said: «C’è una semplice verità: sino al 1948 c’è stata un’entità chiamata Palestina e lo stato ebraico deve la propria esistenza alla sua soppressione».

Una frase il cui senso va attentamente calibrato. In termini di tabelle, si traduce nel fatto che sei milioni di palestinesi (dato Unrwa) sono classificati come «rifugiati» dalle Nazioni Unite. In termini di verità morale, invece, non dice affatto che Israele non dovrebbe esistere, ma interroga la forma in cui esiste: in primo luogo denunciando la ferocia del trattamento riservato ai palestinesi di Cisgiordania, Gerusalemme Est e – non certo da ora – a Gaza; in secondo luogo evidenziando la feroce disparità di diritti in vigore anche all’interno dei suoi virtuali (mai costituzionalmente definiti) confini: disparità fra gli israeliani (ebrei) che godono e quelli che non godono dei «diritti nazionali» (tutti gli israeliani non ebrei).

A proposito di antisemitismo: chi lo equipara alla critica del sionismo politico nei suoi aspetti più “attuali”, sproporzione e indistinzione fra miliziani e civili comprese, fa di questa politica l’essenza dell’anima ebraica. E quindi la vera domanda è: sta dunque nella natura dello stato di Israele discriminare al suo interno categorie di cittadini, e all’esterno espandere sempre di più l’occupazione illegale di terre non sue? Ci si aspetterebbe che la risposta non antisemita sia: «Certo che no!».

E, del resto, come si può inchiodare l’ebraicità a una particolare dottrina politica e a una particolare pratica di esercizio del potere statuale? È vero, invece, che sono più numerose le dottrine ebraiche – politiche e no – rappresentate da menti attive internazionalmente e dai molti cittadini israeliani che si oppongono alla legge dello stato nazione approvata nel 2018, in seguito alla quale Netanyahu potè veridicamente dire: «Lo stato di Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini ma esclusivamente del popolo ebraico».

A proposito di quelle bandiere di una nazione negata, Paolo Mieli troverebbe forse interessante sentire cosa pensano dei suoi articoli tutte le associazioni che in Israele combattono questo stato dell’arte – organizzazioni come B’tselem, Breaking the Silence, Jewish Voice for Peace, e i tanti editorialisti di Haaretz e del Jerusalem Post, che hanno tentato di spezzare con le armi della ragione e della giustizia le radici di Hamas nei disperati sottofondi di Gaza. Tutti antisemiti?