Internazionale

La «prudenza» araba: embargo sì, boicottaggio no

La «prudenza» araba: embargo sì, boicottaggio noL’arrivo del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Riyadh – Ansa

Israele/Palestina Vertice dei leader arabi e musulmani a Riyadh: condanna del doppio standard occidentale, ma nessuno rinuncia alle relazioni con Israele. A parole tutti credono ancora alla formula «due popoli due stati». Com’è possibile dopo il 7 ottobre? Con un ruolo forte degli Stati uniti e leadership nuove a Tel Aviv e Ramallah

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 12 novembre 2023

Il vertice di Riad in contemporanea della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) doveva dimostrare l’unità del mondo arabo-islamico di fronte al massacro di Gaza. Tutti uniti in effetti nel chiedere un cessate il fuoco immediato, dal palestinese Abu Mazen al principe saudita Mohammed bin Salman, dall’iraniano Ebrahim Raisi a Erdogan, ma da questo summit non è venuto nulla sul fronte del boicottaggio delle relazioni economiche con Israele, delle basi americane in Medio Oriente o di eventuali sanzioni in campo petrolifero ed energetico. La guerra per ora fa male soprattutto ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

Nella dichiarazione finale i leader del mondo arabo e musulmano chiedono l’embargo militare verso Israele, armi «usate per uccidere il popolo palestinese» e il prosieguo delle indagini della Corte penale internazionale sui crimini di guerra israeliani, anche attraverso la creazione di «due unità legali di monitoraggio».

DELUDENTE? Non si può definire così perché i vari leader sciiti e sunniti hanno pronunciato parole molto simili di condanna verso Israele, Stati uniti e Occidente in generale accusato di applicare il famigerato «doppio standard» sulla questione palestinese. Si conferma con l’incontro bilaterale di oggi tra il presidente iraniano Raisi e i vertici sauditi l’avvicinamento, avviato con la mediazione della Cina, tra Riad e Teheran a discapito dell’accordo in pectore tra Israele e monarchia wahabita.

Ma è evidente che l’Arabia saudita, storico alleato Usa, cammina sul filo del rasoio, così come molti stati del Golfo tra cui il Qatar che ospita e finanzia Hamas e allo stesso tempo il quartier generale americano in Medio Oriente. Un paradosso? Non tanto visto che proprio a Doha gli Stati uniti hanno firmato gli accordi che hanno restituito l’Afghanistan ai Talebani.

A parole, come avvenuto a Riad, tutti dimostrano ancora di credere alla formula «due popoli due stati». Ma come è possibile la pace di fronte a quello che stiamo vedendo dal 7 ottobre? Su Al Quds al Arabi, quotidiano fondato negli anni ’80 a Londra da rifugiati della Striscia di Gaza, è comparso in questi giorni un lungo articolo di Marwan Muasher ex ministro degli esteri che nel 1994, dopo il trattato di pace tra Amman e Tel Aviv, fu anche il primo ambasciatore giordano in Israele (poi anche negli Usa).

Muasher, di origini cristiane, si chiede quali fattori devono essere presenti per rendere credibile la soluzione due popoli due stati. Il primo fattore, scrive Muasher, è la disponibilità di una ferma volontà internazionale, guidata dagli Stati uniti, per avviare un percorso politico che definisca fin dall’inizio l’obiettivo finale del percorso, porre fine all’occupazione israeliana e creare uno stato palestinese indipendente su tutte le terre occupate da Israele nel 1967, inclusa Gerusalemme est, consentendo un equo scambio di terre e di confini.

Uno degli errori più gravi del processo di Oslo e di quelli successivi è stato non avere definito l’obiettivo finale. Il che ha spinto Israele a manovrare per avviare inconcludenti negoziati a tempo indeterminato inghiottendo più territori possibile.

GLI STATI UNITI devono anche mostrare, contrariamente a quanto fanno in questi giorni, la volontà e la capacità di esercitare una seria pressione su Israele – come chiesto ieri dai partecipanti al vertice di Riad – che da anni non accenna la minima intenzione di voler avviare un percorso politico con i palestinesi. Biden deve fare tutto questo nel bel mezzo di un’elezione presidenziale in cui i due partiti, democratico e repubblicano, competono per mostrare sostegno a Israele.

Quali sono le possibilità che gli Usa facciano a tutto questo? Muasher, un sorta di riformatore pessimista, non si sbilancia: «Lascio a voi giudicare», dice in questa intervista l’ex ministro attualmente vicepresidente del Carnegie Endowment for International Peace, think tank con base a Washington e uffici in quasi tutto il Medio Oriente.

Il secondo fattore necessario è un nuovo governo israeliano che abbia come obiettivo quello di porre fine all’occupazione e fondare uno stato palestinese. Il terzo fattore è un’autorità palestinese che emerga da nuove elezioni e sia in grado di parlare a nome dei palestinesi: è ormai chiaro che l’Anp nella sua forma attuale non può pretendere questo. Ma nessuno vuole le elezioni perché gli Stati uniti temono l’ascesa di Hamas, e anche Israele lo teme, ma allo stesso tempo lo auspica come giustificazione alla persistente riluttanza ad avviare negoziati seri per porre fine all’occupazione.

L’Autorità nazionale palestinese a sua volta è consapevole che nuove elezioni la rimuoverebbero dal potere. Abu Mazen e la sua amministrazione sono uno schermo utile per Israele e Usa a giustificare lo stallo e all’impotenza. Come scriveva recentemente l’ex premier palestinese Al Fayyad su Foreign Affairs un governo legittimo a Ramallah deve includere anche Hamas, altrimenti, dice, avremo centinaia di altri terroristi: lo afferma non un pericoloso estremista ma quello che fu un ex economista della Banca mondiale.

SE LA SOLUZIONE dei due stati è ancora teoricamente possibile, il suo rilancio da parte della comunità internazionale richiede condizioni che sembrano impossibili. Tuttavia, afferma Muasher, la stessa comunità internazionale deve rendersi conto che la sua incapacità di affrontare seriamente la fine del conflitto israelo-palestinese significa soltanto la continuazione del ciclo inarrestabile della violenza.

Una nuova realtà imposta dal 7 ottobre è stata la trasformazione del conflitto in uno scontro feroce contro uno stato israeliano a capo di un regime di apartheid. Questo è il risultato diretto del disprezzo della comunità internazionale per l’occupazione israeliana.

C’è poco da piangere, se non ipocritamente, sui massacri delle ultime settimane perché questo regime di apartheid è insostenibile per i palestinesi ma anche per gli israeliani. E per la stessa comunità internazionale che, sottolinea Muasher, mise sanzioni al Sudafrica ma è incapace di imporle a Israele perpetuando un doppio standard della giustizia internazionale che non è più accettabile. Per nessuno.

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