«Notre vrai moi n’est pas tout entier en nous»: con questo inciso di Jean-Jacques Rousseau – epigrafe del Journal du dehors (1993, Diario dalla periferia) – si apre Extérieurs, la mostra di Annie Ernaux (1940) alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi, fino al 26 maggio. Non ci sono foto scattate dalla scrittrice francese e affiancate dai suoi testi, come penso prima d’entrare, temendo un inevitabile «effetto Sophie Calle», soprattutto a Parigi. La curatrice inglese Lou Stoppard fa invece dialogare alcune fotografie nella collezione del museo con degli stralci del Journal du dehors di Ernaux, incentrato sugli anni 1985-’92.

Rispetto a tanti scrittori, Ernaux fa raramente riferimento o uso diretto della fotografia nei suoi romanzi, se si eccettua un cenno alle foto di Paul Strand a Luzzara del 1955 o L’usage de la photo (2005), un testo scritto a quattro mani indissociabile dalle sue quattordici fotografie. Non manca tuttavia un rapporto con il fotografico: ne La Vie extérieure distingue i suoi ricordi in bianco e nero dell’infanzia da quelli a colori dopo il 1968 («La memoria non ha seguito il passaggio del cinema e della televisione dal bianco e nero al colore?»). E nel Journal du dehors confessa di praticare «una sorta di scrittura fotografica del reale», attenta a non tradire l’opacità delle esistenze che lo attraversano. Procede così per frammenti, riportando quanto visto e sentito in giro con una distanza che la scrittura interpone al flusso del reale. Frammenti che diventano istantanee della vita quotidiana. La sua attenzione si rivolge a uno sguardo, a una conversazione, a un dettaglio colti in luoghi collettivi quali supermercati, stazioni, sale d’attesa, vagoni della metro parigina o del treno che, da Gare Sainte-Lazare, la porta a Cergy-Pontoise dove vive. Qualche critico malevolo l’ha persino apostrofata «reine du supermarché»!

Immersi nella massa anonima, è difficile esercitare uno sguardo vigile e acuto. Ernaux ha invece la capacità di isolare un dettaglio dal resto e di farlo vivere, poco importa quanto ordinario o anonimo. Niente è ai suoi occhi insignificante perché i comportamenti più banali – dal fare la spesa a rivolgersi ai propri figli – tradisce le disuguaglianze socio-culturali. Ma non solo: nei volti e nei gesti che popolano i vagoni della metro si celano i nostri ricordi più intimi, le nostre memorie affettive. Ernaux ci ritrova ad esempio i suoi genitori, sorpresa che perfetti sconosciuti che s’incrociano una sola volta giochino questo ruolo, ignari di essere portatori delle sue storie. Senza dubbio, si dice, anche lei gioca lo stesso ruolo per un altro passante. Il banale – che si esprima nei volti o nei gesti, nei luoghi o negli oggetti – permette di accedere al profondo di noi stessi. Ecco che, se si vuole capire chi siamo, è meglio proiettarsi nel mondo esterno piuttosto che indugiare nell’introspezione da diario segreto, genere classico rinnovato da Ernaux.

Che i suoi romanzi siano una sorta di album fotografico senza immagini? E questo malgrado il fatto che, per riprendere l’incipit di Les Années, «Tutte le immagini scompariranno»? Les Années è tuttavia rivolto a un passato restituito dal lavoro della scrittura, mentre il Journal du dehors che scandisce la mostra registra la realtà in tempo reale. Testimonia il presente, non archivia il passato.

Aspetti che la curatrice coglie, ad esempio, nelle scene della metro parigina fotografate da Dolorès Marat (La femme aux gants, 1987), ma anche nel discorso di Ernaux per il conferimento del Premio Nobel il 7 dicembre 2022: «Trovare le parole che contengono sia la realtà che la sensazione procurata dalla realtà è diventata, e lo è ancora oggi, la mia preoccupazione costante quando scrivo».