I 13 arresti compiuti venerdì dalla polizia turca non sono come tutti gli altri. Non tanto perché colpiscono anche due accademici (è già successo dopo il tentato golpe del 2016) ma perché Ankara – per usare le parole dell’ong Freedom House – «passa il Rubicone».

Ovvero collega con un filo rosso le proteste di Gezi Park della primavera 2013 al fallito putsch di tre anni dopo. Come fossero un evento unico, con le manifestazioni iniziate in piazza Taksim considerate il primo passo del tentativo di rovesciare il governo dell’Akp, secondo una narrativa manichea che infila nel calderone le proteste sociali, le spinte autonomiste del Pkk, gli attentati dello Stato Islamico e infine la notte di quasi golpe del 15 luglio del 2016.

Come spiega il direttore dell’agenzia curda Ahval, Ergun Babahan, Erdogan sta creando un nuovo gruppo target, «l’organizzazione terroristica di Gezi». In piazza nel maggio 2013 scesero oltre tre milioni di persone in 81 città, un sit-in lungo mesi, fatto di dibattiti e attività che coinvolsero persone di diverse estrazioni politiche e sociali: c’erano gli ambientalisti, gli islamisti, gli ultrà, c’erano i giovani, i comunisti, c’erano i curdi e gli aleviti, c’era la comunità Lgbtqi.

Tutti loro sono minacciati, non tanto di finire in prigione (la repressione è sì ampia, ma è una tale detenzione di massa è impossibile) ma di restare privi della leadership che fu e che potrebbe essere in futuro. Nel mirino ci sono infatti i leader di quella protesta, o almeno i suoi volti più noti. Tra cui i 13 arrestati venerdì in operazioni della polizia tra Istanbul, Adana, Mugla e Antalya, tutti accusati di aver finanziato e organizzato le proteste di Gezi.

Nello specifico li si accusa di legami con Osma Kavala, attivista e uomo d’affari, a capo della fondazione culturale Anadolu Kültür e della casa editrice Iletisim, noto filantropo. Arrestato tredici mesi fa, Kavala è ancora in attesa di un processo e di un’accusa formale. Alcuni dei detenuti di venerdì sono dipendenti della fondazione. Ma i più noti sono due accademici: Turgut Tarhanli, vice preside della facoltà di Legge all’Università Bilgi, e Betul Tanbay, professoressa di matematica dell’ateneo Bogazici e prossima vice presidentessa dell’European Mathematical Society.

La professoressa Betul Tanbay

 

Entrambi firmarono l’appello «Accademici per la Pace» che all’inizio del 2016 chiedeva la fine delle operazioni militari contro il sud est curdo: fu poi usato da Ankara per licenziare, dopo il golpe, migliaia di professori universitari. Ora l’accusa nei loro confronti è aver tentato di «scatenare il caos» nel paese, attraverso propaganda a mezzo stampa, campagne contro l’importazione di gas lacrimogeni e la formazione dei partecipanti alla disobbedienza civile con special trainer arrivati da fuori.

Immediato è scoppiato lo sdegno tra le opposizioni turche e in Europa. «Chi si aspetta normalizzazione da questo regime, continui a sognare», il commento dei repubblicani del Chp. In Italia a parlare è l’Unione Matematica Italiana che esprime «sdegno e profonda amarezza» per l’arresto di Betul Tanbay. Interviene anche Bruxelles, prima con l’inviato dell’Europarlamento in Turchia Kati Piri («Un altro brutale assalto alla società civile»), poi con l’Alta rappresentanza agli affari esteri che chiede il rilascio immediato e definisce gli arresti «allarmanti».