«Non ascolto molta musica di oggi, quindi è strano per me quando quello che suono diventa parte dello Zeitgeist» ci racconta Angel Olsen su zoom. La cantautrice statunitense in effetti è un riferimento nel circuito della musica indipendente, grazie a dischi rock lo-fi come MY WOMAN (2016) o al più cupo e di ricerca All Mirrors (2019). La carriera dell’artista, nata nel 1987 a Saint Louis, è giunta ad una svolta con Big Time (2022), dove la classicità insita nella sua voce melodiosa esplode in un disco dalle forti influenze country. Rifuggendo continuamente i cliché, anche quelli del mondo alternativo, la biografia di Olsen è interessante per diverse ragioni. Adottata, si è trasferita a vent’anni a Chicago, dove si esibiva nei locali do it yourself della città. Dopo l’esperienza di chitarrista nella band di Bonnie “Prince” Billy si è trasferita a Asheville, in Carolina del Nord, e in questa cittadina periferica ha proseguito il suo percorso. Improvvisamente, lo scorso anno, si è dichiarata queer presentando al mondo la sua compagna. Ma tutti questi elementi non sono una bandiera per Olsen, i cui testi sono un precipitato di esperienze, fragilità, acquisizioni del profondo che parlano a ogni essere umano dotato di sensibilità. E questa ricerca «fuori dal tempo» tematizza proprio il rapporto tra eternità e presente nell’intimo Forever Means, ep pubblicato pochi mesi fa dalla sodale etichetta Jagjaguwar che Olsen presenterà in Italia in quattro date, arrangiando le canzoni in un’inedita solo version.

«Solo in Italy», le date dal vivo
7 giugno Anfiteatro del Venda, Galzignano Terme (Pd); 9 giugno Teatro Pergolesi, Jesi (An); 10 giugno Rocca Medievale, Castiglione del Lago (Pg); 12 giugno Giardino Della Triennale, MilanoCome nasce quest’ultimo lavoro?

Le tracce di Forever Means le ho registrate insieme a Big Time, ma non erano adatte a quel disco, veicolavano un altro tipo di sensazioni. Le ho scritte durante la pandemia, quando ero sola a riflettere sulla mia vita come tutti, credo, abbiamo dovuto fare. La traccia Time Bandits si riferisce ai miei amici, e parla della necessità di prendersi cura l’uno dell’altro e allo stesso tempo di essere presenti a se stessi. Se ci dedicassimo di più a noi stessi, a comprendere i nostri limiti, forse potremmo trovare pace. Tutto l’ep contiene diverse direzioni in cui potrei andare o che ho già battuto. I riferimenti sono diversissimi: dai Cocteau Twins a Gary Numan, da Brian Eno a Whitney Houston. Sono come un’attrice che si cala in un ruolo: mi piace provare diversi «cappelli» e vedere quale mi sta meglio. In questo modo non sempre vieni apprezzata, ma solo tentando varie strade si scoprono nuovi punti di forza.

Quali aspettative pensi ci siano in merito alla tua musica?

La copertina dell’ep “Forever Means”

Quando ho pubblicato Forever Means qualcuno ha scritto: perché ci sono tutti questi sussurri? Sono rimasta colpita visto che ho cantato in falsetto per tutta la mia carriera. Il minimalismo ora sembra la nuova cosa «hot» che tutti vogliono fare, ma io sento la mia ricerca come personale. Inevitabilmente siamo influenzati da quello che accade intorno, anche in maniera inconscia. Si corre, credo, sempre un rischio quando si crea qualcosa: non sai mai se verrà capito, o se avverrà dieci anni più tardi, o al contrario se verrà incluso subito in una tendenza. Penso molto al risorgere di Kate Bush dopo la partecipazione in Stranger Things. Il fatto che questi giovanissimi siano ossessionati con lei dimostra che non si sa mai come una generazione verrà colpita da una determinata musica. Ma non lascio che tutto questo mi consumi, cerco solo di fare qualcosa che mi piace ascoltare, di onesto e a suo modo classico, che si tratti di una canzone dance o country. Mentirei se dicessi che non mi interessa assolutamente di quello che pensa il pubblico ma provo a seguire quello in cui credo senza annoiarmi.

In quest’ultima fase stai lasciando maggiore spazio all’espressività della tua voce.

Nei dischi precedenti tenevo molto al fatto che si capissero le parole, ora non è più così. È legato anche alla scelta condivisa col mio produttore Jonathan Wilson di registrare su nastro. Mi ha detto: capisco che All Mirrors era un disco pieno di synth, dall’approccio sinfonico, ma questo materiale è ampio, wide, e la tua voce deve essere altrettanto «grande». Ho speso molto tempo in passato a costruire il mio suono, mentre stavolta non è stato quello il focus, anche perché quando entro in studio adesso sono meno nervosa. Ho perso persone per me importanti, eventi che spingono a pensare: ora devi vivere davvero. E voglio farlo seguendo i miei desideri se ne avrò la possibilità.

Il dolore, in effetti, è molto presente nell’ep, come lo hai trasfigurato in musica?

Quando ho scritto Nothing’s free la cantavo con il petto, in vibrato, ad alto volume. Ho capito che enfatizzando meno la canzone sarebbe stata più potente, a volte le cose più ispirate sono generate da un minimo movimento. Quest’ultima sessione di registrazione è avvenuta subito dopo la morte dei miei genitori, ero in uno stato un po’ folle, non sapevo che fare di me stessa. E quindi, semplicemente, mi sono rimessa a lavoro. Sono andata in studio in uno stato trascurato, non mi interessava nulla di come apparivo, mi concentravo solo sulle canzoni. Mi sono liberata delle maschere e mi sentivo molto a mio agio. Inoltre ho lavorato con bellissime persone, non c’era competitività in studio o ego strabordanti, solo sincero amore per la musica, non si è sempre così fortunati.

Cosa ti aspetti dai prossimi concerti «in solo» che farai in Italia?

Suonerò brani che normalmente non faccio con la band, sarà molto intimo, tra vecchi e nuovi pezzi. Mi vivo questi concerti con grande leggerezza, se non dovessi trovare sul palco l’amplificatore suonerei e basta! Spero di farne di più in futuro. Aprirà per me il mio attuale compagno, Maxim Ludwig, e avremo anche del tempo per dedicarci all’arte italiana.