Anche Marchionne ammette: niente piena occupazione in Italia
Il Manager da Detroit Il Ceo di Fca molla anche il cavallo perdente Renzi: quello che appoggiavo io non l'ho più visto da un po'
Il Manager da Detroit Il Ceo di Fca molla anche il cavallo perdente Renzi: quello che appoggiavo io non l'ho più visto da un po'
Ora lo ammette anche Sergio Marchionne. L’obiettivo della piena occupazione negli stabilimenti italiani entro il 2018 «non so se sarà raggiunto». Il Ceo di Fca lo dice parlando dal salone dell’auto di Detroit. Dopo due interviste (semi) esclusive in due giorni, si concede alla stampa specializzata, infarcita da qualche inviato di giornali italiani. Sono loro a far virare le domande dal futuro dell’auto a quello più prosaico del nostro strapaese. E allora l’attenzione mediatica si focalizza sulle parole dedicate all’ex amico Matteo Renzi caduto in disgrazia: «Mi è sempre piaciuto come persona, quello che gli è successo non lo capisco. Quel Renzi che appoggiavo io non l’ho più visto da un po’».
Una frase che mette fine alla luna di miele durata tutto il periodo Jobs act – che ebbe come atto finale l’annuncio in pompa magna di assunzioni a Cassino durante la campagna referendaria, due mesi fa tramutatesi in licenziamenti di interinali – con Marchionne che cinicamente scarica il cavallo perdente in vista delle elezioni. Non a caso il politico più lodato ora risponde al nome di Donald Trump. E le ragioni sono tre. La prima è che Fca è un gruppo ormai in gran parte americano per il quale l’Italia è semplicemente uno dei tanti mercati secondari. La seconda è la riforma fiscale appena varata dal presidente americano: «È stata una scelta intelligente» e «funzionerà». Fca è stata la seconda (dopo Walmart) a sfruttare il taglio delle tasse e farsi bella con le briciole elargite in beneficienza con il bonus da 2mila dollari dato a 60mila dipendenti statunitensi. La terza ragione ha molto a che fare con l’ambiente: «L’amministrazione attuale sembra certamente avere una visione diversa sulle emissioni e sui consumi di quella precedente», rottamando dunque anche quell’Obama che salvò Chrysler e gliela fece comprare: «Non sta a me giudicare Obama, ha avuto otto anni per governare e non può tornare», chiosa con parole che sarebbero piaciute a Gianni Agnelli.
Messa da parte la politica, la parte più innovativa (e grave) delle parole di Marchionne riguarda il futuro degli stabilimenti italiani. La linea è sempre quella di arrivare dopo gli Stati Uniti. «L’impegno come lo abbiamo preso qui, lo prendiamo anche in Italia. Se lo gestiamo bene questo tipo di futuro arriverà anche in Italia. Dateci il tempo per farlo», promette Marchionne. Ma entrando nel dettaglio del piano industriale che verrà svelato il primo giugno, si capisce subito che si parla della provincia dell’impero e che i segnali sono negativi. «Dobbiamo completare lo sviluppo di Alfa Romeo e Maserati. Se dovessimo riempire completamente la gamma Alfa Romeo e Maserati, riempio tutti gli stabilimenti. Le piattaforme sono già stabilite», ha detto Marchionne.
E il problema è proprio questo: già mancavano tre modelli per saturare gli stabilimenti più in difficoltà – uno a Mirafiori e due a Pomigliano dove dal 2019 non ci sarà più la Panda – ma ora i dazi cinesi e le difficoltà di mercato dei due nuovi modelli Alfa (Giulia e Stelvio) hanno portato la cassa integrazione sia a Cassino che a Melfi (dove si produce la 500X e la Jeep Renegade), le fabbriche su cui Marchionne ha puntato nel 2015. Il tutto condito dal fatto che proprio il Jobs act di Renzi ha ridotto la durata della Cig mettendo a rischio licenziamento per primi i lavoratori di Mirafiori, i cui ammortizzatori sociali scadranno a settembre.
Allora anche il velato riferimento ad una nuova Jeep da produrre in Italia («può essere») e del «primo suv Ferrari e la supercar elettrica» non può bastare nemmeno ai sindacati che hanno sempre firmato ogni accordo con Marchionne. «Chiediamo a Sergio Marchionne di utilizzare gli ottimi risultati finanziari e l’enorme capitalizzazione per fare altri investimenti su nuovi prodotti per saturare gli impianti di Pomigliano, Mirafiori, Melfi e Modena per la Maserati», attacca Ferdinando Uliano, responsabile auto della Fim Cisl.
Chi, come la Fiom, da mesi denuncia questa situazione e da anni invita inascoltata ad ogni governo di chiedere conto a Marchionne delle sue promesse, legge le parole del manager col maglioncino con una conferma: «Gli stabilimenti italiani non sono al centro dell’attenzione a Detroit». «Marchionne – attacca il segretario nazionale Fiom Michele De Palma – ha raggiunto gli obiettivi finanziari, un fatto che però non possono pagare i lavoratori degli stabilimenti italiani». E ribadisce la richiesta: «Ora è il momento di aprire un confronto, per affrontare l’emergenza occupazionale dei lavoratori di Mirafiori, Pomigliano e Nola». La speranza è nel prossimo governo. La certezza invece è che presto Marchionne non ci sarà più – rimarrà solo alla guida della Ferrari speranzoso di entrare nella storia riportando il titolo mondiale a Maranello – ma deciderà comunque il suo sostituto. La lotta è fra i due adepiti: Alfredo Altavilla o Mike Manlay. E anche qui l’Italia è seconda.
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