Ancora una volta, mentre il governo giallorosso perde un’altra occasione per ottenere rispetto dall’«alleato» Abdel Fattah al-Sisi, è la società civile italiana a chiedere all’Egitto il rispetto dei diritti umani e il rilascio immediato di Patrick George Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna arrestato il 7 febbraio scorso all’aeroporto del Cairo con accuse che vanno dall’istigazione alle proteste e alla diffusione di notizie false. «Prigioniero di coscienza», lo definisce Amnesty International, come tutti coloro – e sono migliaia, nel Paese africano – che sono detenuti «solo per aver espresso le proprie opinioni o per la loro attività in favore dei diritti umani, senza che abbiamo commesso in alcun modo atti di violenza né abbiamo mai incitato alla violenza». Sabato prossimo si mobiliteranno le curve e la società del Bologna calcio, la squadra di cui Patrick è tifoso. Mentre ieri a Bruxelles, a Trieste e a Roma, al grido di «Patrick libero subito», si sono tenuti sit-in organizzati da Amnesty insieme alla Federazione nazionale della stampa, ai sindacati, l’Arci, Articolo 21 e molte altre associazioni. Davanti all’ambasciata d’Egitto a Roma, il flash mob si è tenuto in forma ridotta perché la questura ha imposto delle limitazioni di presenze per «ragioni di ordine pubblico».

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, lei è stato ascoltato ieri anche dalla commissione Esteri della Camera. Cosa chiedete al governo italiano?

Fino al 22 febbraio, giorno in cui si terrà al Cairo l’udienza chiave per Zaki, chiediamo la massima pressione e anche, come è accaduto sabato scorso, la massima presenza diplomatica per monitorare l’evento. Se poi invece quel giorno il giudice dovesse prorogare la carcerazione per altri 15 giorni, allora ci saranno tutti i motivi perché l’Italia manifesti in qualche forma la propria insoddisfazione nei confronti dell’Egitto. Sul piano dei rapporti commerciali, delle forniture militari, dei rimpatri o, su quello diplomatico, anche attraverso il richiamo temporaneo dell’ambasciatore per consultazioni, perché riferisca su come sono andate le cose e riceva istruzioni per continuare la pressione. Tenuto conto che finora la presenza di un’ambasciata al completo, dal settembre 2017 ad oggi, non ha portato nessuno dei risultati per cui si era deciso di rimandare l’ambasciatore.

La street artist Laika ha rimesso mano alla sua opera, che era stata parzialmente rimossa dal muro di Villa Ada, dove si trova l’ambasciata d’Egitto. È l’abbraccio di Giulio Regeni a Patrick Zaki. Secondo lei, è un bene accomunare le due vicende?

Dal punto di vista emotivo, certe analogie sono inevitabili: la giovane età, la passione per la ricerca, un luogo eletto di vita come l’università… Ma non c’è altro. Sono due storie diverse – uno era ricercatore, l’altro è un attivista per i diritti – avvenute in tempi diversi, con modalità diverse. Credo che questa associazione così completa non faccia bene al destino di Patrick. Quella di Zaki è già una situazione difficilissima così.

Amnesty è in contatto con gli avvocati del giovane universitario?

Non direttamente, ma il nostro riferimento è l’associazione con cui Patrick collaborava che è l’«Iniziativa egiziana per i diritti delle persone».

Avete conferme riguardo alle torture subite?

I suoi avvocati hanno presentato denuncia formale per tortura. Le autorità egiziane dicono che non presentava segni evidenti di torture. Ma questa non è affatto una rassicurazione. D’altronde sappiamo bene che in Egitto la tortura è la prassi e non l’eccezione.

L’Italia non è riuscita a salvare Giulio Regeni e nemmeno ad ottenere giustizia. Ora, ha l’occasione di riscattarsi e salvare Patrick. Sono comunque entrambi vittime di un regime totalitario…

Come altre migliaia di persone, in Egitto. Patrick Zaki, anche per come è stato scritto il mandato di cattura, per ciò di cui è accusato, è il simbolo di quella società civile messa all’indice, considerata un nemico, una minaccia. Come Patrick, nelle stesse condizioni, ci sono avvocati scrittori, attivisti. Non possiamo continuare a far finta di niente.