America tra sport e intolleranza
Discriminazioni La sfuriata di Victoria Williams contro il giudice di gara ha spinto l'opinione pubblica negli Usa a interrogarsi nuovamente sul sessismo e sulle forme più eclatanti di intolleranza che hanno portato alla nascita del movimento #metoo, ma anche la questione salari, sulle donne pagate meno degli uomini a parità di mansioni
Discriminazioni La sfuriata di Victoria Williams contro il giudice di gara ha spinto l'opinione pubblica negli Usa a interrogarsi nuovamente sul sessismo e sulle forme più eclatanti di intolleranza che hanno portato alla nascita del movimento #metoo, ma anche la questione salari, sulle donne pagate meno degli uomini a parità di mansioni
La questione americana, tra sport e intolleranza. È un destino segnato dai primi passi (o tweet) della presidenza Trump, che si porta dietro un rapporto a dir poco controverso con lo sport a stelle e strisce, microcosmo che incide – eccome – sull’opinione pubblica. Non c’è un giorno in cui non ci sia legna sul fuoco delle polemiche. Ora si fa sentire la folta rappresentanza di innocentisti e colpevolisti sullo sfogo di Serena Williams nella finale degli Us Open contro l’arbitro, definito ladro, bugiardo e soprattutto sessista, tollerante con gli uomini in racchetta, molto meno con tenniste come la fuoriclasse afroamericana, una delle voci più sentite tra gli sportivi americani, da anni schierata per la tutela delle mamme lavoratrici e per colmare il gender gap anche nel tennis tra uomini e donne.
La sua sfuriata contro il giudice di gara, le lacrime post partita hanno spinto gli americani a interrogarsi nuovamente sul sessismo, sulle forme più eclatanti di intolleranza che hanno portato alla nascita del movimento #metoo contro le molestie sessuali ma anche la questione salari, sulle donne pagate meno degli uomini a parità di mansioni, dal 20% di margine nell’industria al 4% anche in realtà progressiste e illuminate, come la Silicon Valley, sino a Wall Street. E poco importa che stavolta Serena abbia incanalato la rabbia, la frustrazione per la sconfitta nella sua missione da pasionaria dei diritti civili. La base era però già incendiaria, il tema delle disuguaglianze è al centro del quadrato nel match infinito tra gli atleti della National Football League, che s’inginocchiano durante l’esecuzione dell’inno statunitense prima delle partite e la presidenza Trump. Con il via alla stagione regolare ci sono stati due giocatori dei Miami Dolphins che hanno aderito al movimento avviato due anni fa dall’ex lanciatore dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick – che li ha ringraziati via Twitter -, suscitando nuovamente le ire del presidente degli Stati uniti, furioso per la presunta mancanza di rispetto degli atleti verso i militari americani morti con l’uniforme addosso.
Il gesto della coppia dei Dolphins segue la scelta di Nike che ha piazzato Kaepernick su una campagna pubblicitaria per il trentennale della linea Just do it (vendite alle stelle), aperta sfida sia a Trump che alla Nfl che nel corso dei mesi ha praticamente estromesso dal giro l’ex dei San Francisco 49ers, senza contratto, senza provini a neppure 30 anni, dopo aver condotto la sua franchigia a un Superbowl. E su questa brace, su un Paese lacerato da sempre dall’intolleranza, incredibilmente ecco il primo ragazzo pon pon dello sport, nella Nfl intollerante, verticale, spesso omofoba, terreno di caccia per Trump e per la comunità repubblicana: Jesse Hernandez, 25enne ballerino, è entrato nello staff delle cheerleader dei New Orleans Saints, facendo cadere un tabù lungo 60 anni, tra stacchetti, divise aderenti, pose sexy e pochi dollari in tasca, sfruttate, senza diritti, senza orari o tutele salariali e pensionistiche.
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