Visioni

«America Latina», nell’inconscio mostruoso del maschio comune

«America Latina», nell’inconscio mostruoso del maschio comuneElio Germano in «America Latina»

Venezia 78 Ultimo titolo italiano in concorso alla mostra, la terza prova registica dei fratelli D'Innocenzo. La famiglia «felice» di Elio Germano, dramma e horror psicologico

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 10 settembre 2021

America latina come la città laziale cresciuta col fascismo sulle paludi e grazie alla bonifica, nell’umidità e in una dismissione progressiva di aspettative. Ma anche il Sud America con la sua storia di violenza del potere e ipocrisia delle piccole e grandi borghesie che l’hanno appoggiato, e del patriarcato comune quest’ultimo a entrambe le realtà. A cosa alludono i fratelli D’Innocenzo – come si firmano i due gemelli registi romani, Damiano e Fabio – nel titolo del loro nuovo film, in concorso a Venezia, accolto almeno in proiezione stampa con gelo e spaesamento? Eppure non che sia così diverso nelle intenzioni dal precedente e osannato Favolacce, anzi per certi aspetti questo ha una migliore coerenza formale e soprattutto maggiore onestà nel provocare disagio senza i trucchi da sceneggiatura volti a tranquillizzare lo spettatore e a far «tornare i conti». Stavolta non torna nulla o quasi sul piano della rassicurazione, di per sé non è un difetto proprio come non lo è estremizzare l’impatto su chi guarda in una sorta di «postumanesimo» fin troppo coccolato: quello che conta è, ovviamente , il modo con cui si ottiene. L’energia «grezza» dell’esordio quel La terra dell’abbondanza con cui i due registi hanno sorpreso il cinema italiano divenendone un’icona glamour, rapidamente imbrigliata in Favolacce con tentazione di accademismo di sé, torna qui a premere in qualche modo seppure nuovamente raggelata da inciampi e molte citazioni esibite di voyeurismo cinefilo – l’horror, più omaggi espliciti alle ossessioni polanskiane dell’Inquilino del terzo piano. Ma di cosa parla il nuovo capitolo nelle periferie geografiche e dell’emozione, in quel nero rivendicato dell’individuo contemporaneo?

PROTAGONISTA è ancora una volta una famiglia «felice» – motivo ricorrente nella loro poetica – un padre, la moglie e le due figlie molto belle, una adolescente, l’altra ancora ragazzina, che abitano in un villone cafonissimo con piscina, cani e pianoforte nel mezzo del nulla. Lui, Massimo, è dentista – ruolo per cui hanno ritrovato dopo Favolacce Elio Germano, in una recitazione con sguardo sempre obliquo dal basso verso l’alto – studio avviato, l’amico di bevute e stravolgimenti, padre premuroso, marito innamorato che sulla bella assistente non ha mai messo gli occhi – non si fa replica all’amico un po’ malizioso. Ha un genitore che è il suo incubo, si allude a un rapporto doloroso ma poco esplicitato, l’uomo rimane in ombra – letteralmente pure sullo schermo – e all’affetto preferisce provocare il suo senso di colpa.La moglie si presume casalinga, la figlia più grande ha un fidanzato che non porta a casa, sta fuori fino a ore impossibili – e poi chiede scusa – il che mette almeno in imbarazzo la sua autorità paterna. L’idilliaco quadretto si congela quando il dentista (che si accorda sempre un po’ col torturatore) scopre in cantina una bambina legata e imbavagliata col volto tumefatto. Come ci è arrivata?

INVECE di chiamare i soccorsi fugge terrorizzato che lei lo accusi di qualcosa: e se fosse stato lui, magari in un momento di «oscurità», spesso gli accade di non ricordare. Da quel momento la realtà si divide in un sopra e in un sotto, la cantina (luogo horror per eccellenza) che scorrono paralleli ma che saranno destinati a incontrarsi. Il salto nella follia giorno dopo giorno sembra scontato, ma forse ci siamo già dall’inizio nella follia, e allora quale è la realtà? L’uomo vacilla (noi un po’ con lui), l’amico, le figlie, la moglie nella deformazione del suo sguardo diventano nemici, possibili orditori di un complotto di cui è la vittima . E se anche la bambina in cantina fosse un’allucinazione? O se l’allucinazione fosse proprio la famiglia? Perché l’unica certezza è che siamo sempre nella testa del personaggio maschile, del padre/marito/torturatore/pedofilo: è il suo punto di vista che i registi tengono fino alla fine, e che disegna la metafora nell’alternanza tra il «fuori» e l’interno domestico.
I D’Innocenzo hanno detto che volevano «raccontare la crisi del maschio oggi»” intorno alle sue variazioni che sostanzialmente si riassumono in una, la violenza contro tutto ciò che mette in discussione il loro ruolo, più o meno secolarizzato nella infinita catena di mascolinità tossica: la donna, compagna, moglie, amica, figlia, le fondamenta appunto su cui l’ordine patriarcale poggia.

L’«AMERICA LATINA» è insomma non quella delle cantine di sevizie (politiche) ma lo scrigno intimo del maschile messo a confronto con i fantasmi femminili su cui proietta questa violenza – si parla a un certo punto alla tv di un uomo che ha massacrato la famiglia uccidendosi – spogliato e osservato in un delirio nel quale, senza spoilerare, che sia vera la famiglia o la ragazzina prigioniera poco importa: è appunto la costruzione di questo desiderio di sopraffazione che viene esaminato, in cui il mostruoso è l’uomo comune – come ben sappiamo. La mancanza di un salto, però nonostante la voluta ambiguità narrativa finisce per rendere America latina (in sala a novembre) programmatico e soprattutto nel suo raggelamento privo di una «giusta distanza» necessaria a interrogare la propria materia.

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