Nel dicembre 2022, l’Assemblea Generale Onu ha chiesto alla Corte internazionale di Giustizia un nuovo parere consultivo sulle conseguenze legali delle politiche e delle pratiche dell’occupazione israeliana. La notizia mandò su tutte le furie l’esecutivo israeliano (reazione ormai rituale dei governi Netanyahu di fronte al manifestarsi dell’esistenza di norme, istituzioni e giurisdizioni internazionali). L’ambasciatore Erdan sostenne pubblicamente all’Onu che la risoluzione fosse il prodotto di una «tattica terroristica palestinese» di «manipolazione» della Corte.

Si sono appena concluse all’Aia le udienze in cui decine di stati sono intervenuti oralmente in questo procedimento (rimasto nell’ombra del caso per violazioni della Convenzione sul genocidio iniziato dal Sudafrica). Quasi tutti gli stati intervenuti nel procedimento hanno sostenuto l’illegittimità strutturale dell’occupazione israeliana, la più lunga della storia, giunta al suo 57esimo anno. Tre generazioni di palestinesi sono ormai nate e cresciute in un draconiano regime militare di negazione di diritti elementari e libertà fondamentali.

OLTRE alla comunità internazionale, anche in Israele giuriste, avvocati e comitati di docenti denunciano da anni quanto questa occupazione si sia tramutata in una incrementale annessione armata, con lo spostamento delle competenze sul territorio occupato dall’esercito al governo israeliano (segnatamente ai suoi ministri espressione del movimenti dei coloni). Annessione vuol dire violazione delle stesse norme fondamentali infrante dalla Russia in Crimea e Ucraina orientale, ma lo sdegno dei paesi occidentali che si rovescia in rovinoso (quanto meno in termini di credibilità) sostegno all’annessione dell’alleato israeliano.

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Nel diritto internazionale le situazioni di occupazione militare sono riconosciute e limitate da un regime di eccezione, caratterizzati dallo iato tra sovranità, autodeterminazione ed esercizio dell’autorità. Quando questo iato cessa di essere temporaneo e diventa permanente, l’eccezione diventa inammissibile. Nessuna potenza occupante acquisisce alcun potere sovrano sul territorio che occupa o sulla popolazione sotto occupazione. Ciò equivarrebbe a configurare un diritto di conquista armata, la cui proibizione e criminalizzazione sono il cuore pulsante del diritto internazionale contemporaneo.

Da qui il divieto di alterare i caratteri fondamentali del territorio occupato sul piano sociale, economico e demografico, incluso il divieto, penalmente sanzionato come crimine di guerra, di trasferire «direttamente o indirettamente» la popolazione della potenza occupante in territorio occupato. Al fine di ignorare tali divieti, i governi israeliani negano lo status di territorio occupato non solo (da ultimo) di Gaza, ma anche (fin dal 1967) della Cisgiordania, sostenendo che si tratti di una sorta di terra nullius soggetta a disputa, da risolversi solo in forma negoziale.

Un negoziato curioso, simile a quello tra uno stivale e un collo sotto la sua suola, quello tra una potenza nucleare e, in Cisgiordania, una popolazione e la sua Autorità nazionale disarmate. Negando l’occupazione, Israele da un lato rinuncia all’unico titolo giuridico che fonderebbe la propria presenza militare nel territorio occupato, dall’altro inasprisce la propria morsa sulla Cisgiordania, con centinaia di civili uccisi ogni anno da esercito e coloni e ministri impegnati a istigare a «spazzare via» interi villaggi. All’instaurarsi del suo penultimo governo Netanyahu stesso, senza più infingimenti, dichiarò un «diritto esclusivo e insindacabile» degli ebrei israeliani «su tutta la terra» storica di Israele.

Il descritto quadro di macroscopica illegalità e violazioni sistematiche di norme perentorie spinse il Consiglio di Sicurezza Onu a intimarne ad Israele la cessazione e la Corte penale internazionale a indagare i correlati crimini internazionali (per cui si attendono, in tempi brevi, conclusione delle indagini e mandati d’arresto).

Come si è posta l’Italia di fronte a questa insostenibile e pericolosa situazione? L’Italia è intervenuta (piuttosto silenziosamente) con osservazioni scritte contro il parere consultivo, chiedendo alla Corte di astenersi dal pronunciarlo, affinché non si disturbi il ‘negoziato’ tra stivale e collo tirando in ballo diritti inalienabili e diritto internazionale. L’Italia chiede un ‘negoziato’ legibus solutus.

QUANTE CITTADINE e cittadini ne erano a conoscenza? Quanto se ne è discusso? Che tali scelte strategiche avvengano nel silenzio è un fallimento collettivo, che coinvolge tutti, esperti, università e organizzazioni non governative, ma soprattutto media e partiti. Si lascia che qualcuno decida senza nemmeno informarne, anche su questioni che definiranno il nostro tempo per decenni.

Questo intervento dell’Italia dimostra una volta di più la necessità urgente di ristabilire forme di vigilanza democratica sulle fondamentali scelte di politica estera e politica del diritto internazionale dei nostri governi, ormai impegnati a scegliere sulla base di criteri sconosciuti, dietro un sipario post-democratico in cui cittadini, società civile e politica non sono nemmeno più titolati a saperne qualcosa, figuriamoci a chiederne conto. È così che consorterie, affarismo ed interessi opachi vincono sulla democrazia.

Quello a chiedere conto, democraticamente, di scelte e criteri di questa portata è quindi il primo diritto da riprendersi per difendere il nostro stesso diritto ad autodeterminarci e con esso il diritto degli altri popoli a non lasciare che la propria autodeterminazione sia strangolata dalla forza delle armi, a cominciare dalle armi illegalmente inviate a governi che andrebbero, al contrario, sanzionati per le proprie condotte criminali.

*Docente di diritto dei conflitti armati e diritto internazionale penale, Nottingham Law School