Ai margini di entrambi i casi aperti sulle vicende israelo-palestinesi davanti alla Corte internazionale di giustizia (Cig) dell’Aja ha tenuto banco l’effetto Namibia. Che si parli di genocidio, come nel caso della denuncia formulata dal Sudafrica, o di prolungata occupazione illegale come nelle udienze degli ultimi giorni, l’esperienza namibiana è emersa come la più aderente al tema trattato. E la voce di Windhoek la più titolata ad esprimere un giudizio – senza appello – sulla condotta di Israele a Gaza e in Cisgiordania.

SI È DIFATTI CONSUMATO in quella che era ancora l’Africa Sud-Occidentale Tedesca il primo genocidio del ‘900, quando per stroncare le ricorrenti ribellioni delle popolazioni locali (deprivate di terre e diritti) il Kaiser optò per lo sterminio pianificato. Nel 1904 l’armata agli ordini del generale von Trotta diramò l’ordine di annientamento (Vernichtungsbefehl): «All’interno dei confini coloniali tedeschi tutti gli Herero, che siano armati o meno, devono essere abbattuti». Il repertorio genocidiario includeva ovviamente le armi della sete e della fame, con l’avvelenamento dei pozzi, i raccolti bruciati e il bestiame razziato. Gli aiuti internazionali, a differenza di quanto accade oggi con Gaza, non vennero impediti, ma solo perché non erano stati ancora inventati. Alla fine vennero uccisi quasi l’80% degli Herero e il 50% dei Nama, che erano stati i primi a sollevarsi dieci anni prima. In totale circa 100 mila persone.

Solo da poco, a mezza bocca e continuando a negare indennizzi ai discendenti, la Germania ha ammesso che si trattò di genocidio. Ma nel momento in cui il governo tedesco si è schierato contro l’iniziativa sudafricana a L’Aja, continuando peraltro a rifornire di armi Tel Aviv, la prolungata reticenza sui crimini commessi nella colonia africana ha permesso all’anziano presidente namibiano Hage Gengob di ironizzare sull’imbarazzo tedesco di fronte al concetto di genocidio. Berlino, ha detto, è «incapace di imparare dagli orrori della sua storia» e dunque «non può esprimere moralmente il proprio impegno nei confronti della Convenzione delle Nazioni Unite contro il genocidio».

D’ALTRO CANTO al povero Gengob, passato a miglior vita pochi giorni dopo queste dichiarazioni, le associazioni namibiane che hanno portato avanti la lotta per il riconoscimento del genocidio e l’istanza di indennizzo in tutti questi anni hanno ricordato lo scarso appoggio ricevuto dalle autorità namibiane, più sensibili ai progetti in essere della cooperazione allo sviluppo tedesca.

Il caso Namibia è stato poi citato in più occasioni nel corso dell’altro dibattimento di fronte alla Cig, ancora per via di un precedente illuminante che risale stavolta al periodo dell’occupazione e dell’annessione di fatto da parte del Sudafrica. Circostanze già censurate nel 1969 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che anche in quel caso chiese conforto alla Corte dell’Aja. Oggi la Namibia ha sentito «l’obbligo morale» – come ha detto ai giudici la ministra della Giustizia Yvonne Dausab – di dire la sua sull’«indifendibile» occupazione israeliana, definendo «impressionanti e dolorosi» i parallelismi tra quanto hanno sofferto i namibiani e le vicende palestinesi.

NEL 1971 I GIUDICI alla fine dichiararono illegale l’occupazione sudafricana. Certo, per giungere alla piena indipendenza dal paese dell’apartheid – che arriverà quasi vent’anni dopo – si rivelò più incisiva la guerriglia della Swapo. Ma il caso Namibia resta comunque di buon auspicio per la causa palestinese, almeno a L’Aja.