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Alessandro Serra, verso la trilogia del potere

Alessandro Serra, verso la trilogia del potere

Speciale interviste Il regista di "Macbettu" premio Ubu 2017 ha attinto alle sue origini sarde per aggiungere mistero

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 30 dicembre 2017

Al di là di premi e classifiche tipiche a fine d’anno, lo spettacolo teatrale del 2017 non può che essere Macbettu, che peraltro di premi e riconoscimenti ne ha avuti sia di critica sia di pubblico fino alla conquista del Premio Ubu solo qualche settimana fa (la recensione di Gianfranco Capitta si può leggere su il manifesto del 14 ottobre 2017). Nulla però toglie al fatto che lo spettacolo di Alessandro Serra abbia conquistato notorietà presso addetti ai lavori e pubblico per essere stato oggetto della più surreale stroncatura al buio mai apparsa su giornale. Anche se a ben vedere la stroncatura più che a Franco Cordelli, autore dell’articolo, forse si deve attribuire ad uno dei redattori de La Lettura, l’inserto culturale del Corriere della Sera, che ha infilato nel titolo, e rileggendo la riga contestata fuori argomento, la supplica più che il desiderio del critico di non andare a vedere l’ennesimo Shakespeare, per di più in sardo. C’è da dire che Cordelli si interrogava sugli spettacoli in cartellone al Piccolo Teatro di Milano e al Teatro Argentina di Roma. Serra ricorda di aver ricevuto molti messaggi che lo esortavano a rispondere:”ho letto il suo articolo e vedo che il pensiero c’è rispetto ai suoi colleghi che si sono indignati; Cordelli ha espresso il suo pensiero in modo netto e lucido. Come per altro aveva fatto andando a recensire positivamente, credo per primo e senza essere stato invitato, Il trattato dei manichini. Per questo sono stato tentato di scrivere una lettera in difesa di Cordelli”. Sta il fatto che quest’ipotetica bocciatura, per molti versi, è stata la fortuna dello spettacolo, un’azione di marketing irrituale che ha smosso il teatro italiano: da colleghi a critici per finire con il mondo “social” e con l’ormai leggendario “spettatore professionista” che ha seguito il Macbettu in tutte le sue repliche, andando ad occupare “proprio il posto lasciato vuoto da Cordelli”. Ma con Alessandro Serra, raggiunto al telefono nella sua casa – laboratorio sulle colline senesi, ci si è immediatamente lasciati alle spalle l’episodio e si è conversato in felice sintonia e ad ampio raggio sia sullo spettacolo sia sul suo modo di lavorare e del rapporto che ha con gli attori e sul progetto prossimo venturo che lo vedrà impegnato nella messa in scena del Giardino dei ciliegi di Cechov.

Sei nato a Civitavecchia e nel tuo curriculum scrivi “dove sbarcano i sardi”.

La mia famiglia è sarda. Mio nonno e mio padre pastori si trasferirono a pascolar pecore e far formaggi sui monti che rialzano Civitavecchia. Ho ancor oggi ricordi vividi di come si parlava in casa dei miei nonni e di cosa mangiavamo: piatti e cibi tipici come il pane carasau. E poi c’era questa lingua assurda per comunicare. Era tutto molto shoccante e allo stesso tempo affascinante.

Puoi descrivere come hai lavorato intorno alla lingua sarda e alle variazioni barbaricine del logudorese?

Lingua esatto; molti ritengono e dunque cadono in errore, il logudorese un dialetto. Invece è una vera e propria lingua con delle sottili varianti come quelle presenti nella Barbagia. E’ stato un processo lungo cominciato, innanzitutto, con un reportage fotografico realizzato tra i Carnevali della Sardegna più di dieci anni fa. Girando per Mamoiada, Bitti, Bosa, Orgosolo mi resi conto delle fortissime analogie che le maschere sarde, i mamuthones, l’issohadore, le attittadores cioè le streghe, avevano con i personaggi scespiriani del Macbeth. In seguito ad una residenza, la presenza di un attore inglese e di Giovanni Carroni ci fece provare a recitare Shakespeare in inglese ed in sardo. Ho insistito molto su quella che era un’intuizione sulla lingua e i canti prima di approntare una grande riduzione, l’ho scritto e poi fatto tradurre.

E’ stato Carroni a far la traduzione?

Sì, per me poi quando è un attore ad occuparsi del testo tutto sembra tornare al proprio posto. E’ stato un ottimo lavoro. Dico di più un lavoro enorme perché volevo evitare di cadere nel cliché e per farlo ho dato ascolto ad una delle lezioni di Grotowski che per non cadere nei cliché ci devi lavorare duramente su. Lavorando sulla lingua in alcune situazioni ho usato canti e filastrocche della tradizione. Mi son servito della Deledda che raccolse in un libro gli usi e i proverbi della Sardegna. Sopratutto sono le streghe che sembrano bofonchiare parole senza senso ed in realtà sono le parole magiche delle attidoras. Dicono e fanno proprio quelle magie che urlano mentre strepitano. In quello che noi chiamavamo “Bagasse pride”, cioè la sfilata delle streghe, intonano un canto funebre vero. Poi, nei carnevali sardi non ci sono donne e sono gli uomini che si travestono. Anche in questo si ricrea in modo inedito il legame con il teatro elisabettiano.

Non è la prima volta che Shakespeare è tradotto non italiano. Eduardo fece una memorabile “Tempesta” in napoletano. Ci sono gli esempi recenti di Camilleri con Di Pasquale. E quello multidialettale dei fratelli Taviani in “Cesare deve morire”.

Shakespeare non funziona in italiano. Ma come dice Peter Brook nemmeno in inglese. Suona falso se viene recitato pedissequamente. Va continuamente tradito anche nella sua lingua originale. Basta ascoltare Ian McKellen che nel monologo del Riccardo III non rispetta il verso.

Ti prepari ad affrontare “Il giardino dei ciliegi” di Cechov, non hai pensato che dopo Macbettu ci fosse spazio per un testo contemporaneo?

Ho in mente di completare Shakespeare facendone altri due, forse tre. Due, Riccardo III e Re Lear, per chiudere la trilogia del potere cominciata con Macbettu e se trovo l’attore giusto Amleto. E se non dovessi trovarlo forse lo tradurrò solo. Per me l’attore conta moltissimo. Per il Macbettu devo tutto a Leonardo Capuano. Avrebbe dovuto vincere lui l’Ubu e non lo spettacolo. Il suo lavoro è stato magnifico, per me è stato come averci lavorato da sempre. Eppure non è così. Per rispondere: non lo so, lavorare con testi contemporanei? Non è un’epoca geniale. Io guardo molto la tradizione e ho ben chiaro chi sono i maestri. A chi devo guardare. Peter Brook, Kantor. Ho studiato e studio ancora molto. E praticando una scrittura di scena penso che ciò apra un timbro riconoscibile in ogni testo e sono certo che ci sarà anche in questo “Giardino” di Cechov. Io sono autore non solo della regia, ma curo se non realizzo io stesso anche le scene, i costumi, le luci. E’ un artigianato. D’altronde il teatro è sempre lo stesso. Per fare il regista e lo diceva Orson Welles basta una sola settimana. Poi quando il teatro si vergogna di essere teatro e crede di andare verso la contemporaneità con facili scorciatoie lì non vale più nulla.

Cosa significa oggi guidare una compagnia?

Faccio un notevole lavoro di preparazione. Arrivo con oggetti, costumi, stoffe, luci e li butto tutti nella scrittura di scena. Lavoriamo tutti insieme, tra regista e attore non vi sono segreti, ci si dice tanto e come Brook ha insegnato:”bisogna arrivare sudati davanti al testo”. Grotowski diceva:”io creo attraverso gli attori”. Per “Il Giardino dei ciliegi” ci sarà un impegno in più sia economico sia in termini di prove. Ho richiesto questo sforzo per avere maggior tempo di preparazione e prove.

Macbettu è nato da suggestioni carnascialesche. Per chiudere, come hai preso la notizia che il FUS finanzierà carnevali e rievocazioni storiche?

Non sapevo di questa novità. Per i Carnevali veri e non quelli con mascherine di Zorro mi sembra una buona notizia. Le rievocazioni le lascerei stare. Consiglio di andare a febbraio in Barbagia, con un freddo insopportabile, ci si troverà di fronte con grande imbarazzo ad uomini ubriachi capaci di cose inimmaginabili e al contempo di tenere un ritmo all’apparenza ineseguibile. Si vedrebbe all’opera le più autentiche pratiche dionisiache. Ritengo che ciò possa preservare l’essenza stessa dei Carnevali e le loro antichissime origini. D’altronde quando ti trovi a vedere a Mamoiada in pieno inverno un bambino caricato sulle spalle di campanacci che incessantemente balla e suona, capisci che è quel ritmo che azzera la fatica.

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