Alessandro Liberati
Alessandro Liberati, scomparso a 57 anni
Italia

Al cuore della medicina

Alessandro Liberati Dieci anni senza Alessandro Liberati, il medico che portò in Italia la «medicina basata sulle evidenze». Una vita troppo breve spesa a favore dell’indipendenza, della trasparenza e della qualità della medicina. E di cui oggi, in tempo di pandemia, si sente la mancanza
Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 2 gennaio 2022

Il suo nome dice poco al grande pubblico, ma in ambito sanitario oggi sono in tanti a ricordare Alessandro Liberati, morto il 1 gennaio di dieci anni fa. E a rimpiangere che, durante la pandemia, Liberati non abbia potuto dare il suo contributo affinché sanità e ricerca medica svolgessero il loro ruolo con indipendenza e attenzione alla salute dei cittadini, più che alle esigenze del mercato e della politica.

Secondo Luca De Fiore, editore, collaboratore e amico di Liberati, in questi mesi sarebbe stato utile rispondere a molte domande poste da Liberati. «Se guardiamo le sperimentazioni condotte c’è il sospetto che gli interrogativi di ricerca siano molto influenzati da interessi industriali» osserva. «Del tutto assente la ricerca sulle misure organizzative o sull’efficacia di lockdown, mascherine e distanziamento: un problema che riguarda tutto il mondo, ma anche in Italia stiamo perdendo un’occasione».

Quando a 57 anni si arrese a un mieloma, Liberati era professore all’università di Modena e Reggio Emilia. Aveva già lavorato ad Harvard e al «Mario Negri» di Milano dove era entrato come obiettore di coscienza, diretto il «Centro per la valutazione dell’efficacia dell’assistenza sanitaria» (Ceveas) dell’Emilia-Romagna e avviato mille progetti per introdurre standard rigorosi di trasparenza e onestà della ricerca medica.

Ma a detta di tutti, Liberati era e rimane colui che ha portato in Italia la «medicina basata sulle evidenze», un approccio che mette al centro i benefici reali alla salute del paziente e non il successo accademico, il marketing farmaceutico e i conflitti di interesse che spesso la inquinano.

Negli ultimi mesi di vita ne fece le spese in prima persona, come scrisse in una lettera-testamento pubblicata dalla prestigiosa rivista The Lancet: «Al 31 luglio 2011 – scriveva Liberati a proposito delle ricerche sulla sua malattia – una ricerca con il termine-chiave “mieloma multiplo” ha identificato 1384 studi clinici… solo 58 di questi aveva come obiettivo la sopravvivenza globale e in soli 10 questa ultima rappresentava l’obiettivo primario».

Gran parte della ricerca medica, denunciava Liberati, sembra infatti avere altri obiettivi, come promuovere farmaci costosi o le carriere dei ricercatori che li svolgono.

Oggi a lui è intitolato il nodo italiano della Cochrane Collaboration, una rete internazionale di ricercatori indipendenti che si dedicano a tempo pieno a verificare l’efficacia delle terapie utilizzate dai medici sulla base di tutte le fonti disponibili nella letteratura scientifica. Anche grazie al contributo di Liberati, che nel 1994 fondò il nodo italiano della rete, negli anni la Cochrane ha portato alla luce innumerevoli conflitti di interesse, ricerche manipolate e terapie inutili.

Pure sul piano dell’informazione ai medici la lezione di Liberati sarebbe stata utile, di fronte alla gazzarra dei virologi da talk show. «In paesi come Inghilterra, Canada o Australia i professionisti sanitari possono contare su revisioni e sintesi esaurienti e sempre aggiornate dei risultati della ricerca finanziate dai governi che si traducono in linee guida precise che riducono la variabilità assistenziale. Perché in Italia neanche si è provato a finanziare delle “revisioni sistematiche”, pur disponendo delle competenze per produrle?» chiede oggi De Fiore, che ha diretto il nodo italiano Cochrane dalla morte di Liberati al 2018.

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La sede Pfizer a New York, foto Ap

 

Un altro chiodo fisso di Liberati era il coinvolgimento dei cittadini nella sanità.

«Alessandro ebbe l’intuizione di far valutare direttamente ai pazienti, e non ai medici, la qualità della vita» ricorda Paola Mosconi, ricercatrice al Mario Negri che con Liberati diede vita al progetto “PartecipaSalute”. «Quell’intuizione si allargò fino a coinvolgere le associazioni di pazienti e poi i cittadini stessi. Nel quadro di PartecipaSalute ideammo percorsi di formazione per rappresentanti della cittadinanza nei Comitati etici (gli organismi indipendenti che valutano la correttezza delle sperimentazioni cliniche, ndr) su temi come i conflitti di interesse e le regole della buona ricerca. Credo che la pandemia abbia convinto tutti sull’importanza della health literacy».

Un approccio in gran parte disatteso durante la pandemia. «Facciamo fatica a trovare qualche “nostro” rappresentante nei tanti comitati, commissioni e cabine di regia create per gestire la pandemia» constata De Fiore. «Anche la riforma sanitaria del 1978 aveva messo i cittadini al centro del sistema di promozione della salute e di governo della sanità: niente di cui possiamo dire di essere testimoni oggi».

Un lungo sodalizio ha legato a Liberati anche Nicola Magrini, oggi direttore dell’Agenzia Italiana per il Farmaco (Aifa). Fu lui a fondare il Ceveas e a affidarne a Liberati la direzione scientifica. «Era un entusiasta e un generoso, con una rete di collaborazioni internazionali che condivideva volentieri» è il suo ricordo. Avrebbe avuto dubbi sull’efficacia dei vaccini? «Pur criticando il sistema delle riviste scientifiche, Alessandro sapeva riconoscere gli studi scientifici di qualità. Sarebbe stato il primo a dire che i vaccini si sono rivelati più efficaci del previsto e che la mole di risultati a loro favore è solida. Ma si sarebbe speso per dare vita a fonti affidabili di informazione, di cui la gente si fida. E avrebbe difeso il valore della ricerca indipendente e della sanità pubblica».

«Sosteneva che il Servizio sanitario nazionale dovesse investire nella ricerca pubblica, e non limitarsi all’assistenza» ricorda anche Antonio Addis, farmacoepidemiologo al Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio e membro della Commissione tecnico scientifica dell’Aifa. Anche lui era al Ceveas con Liberati e fu chiamato a prenderne il posto nella gestione dei finanziamenti alla ricerca dell’Emilia-Romagna. «Era un’idea visionaria, di solito si ritiene che la ricerca debba farla l’accademia e che il servizio sanitario debba limitarsi a “comprarne” i prodotti. Invece molte ricerche possono essere svolte solo dal settore pubblico. È l’unico modo per governare l’incertezza e l’innovazione in ambito sanitario».

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