Massima eminenza critica circa l’opera di Cervantes, Francisco Rico aggiunge una nota, nella edizione del Don Chisciotte da lui curata (in Italia nella traduzione di Angelo Valastro Canale, da Bompiani), quando nel nono capitolo compare per la prima volta il nome del favoloso Hamete Benengeli che, nel gioco cervantino di specchi e sdoppiamenti, viene indicato come il «vero» autore del testo dal quale Cervantes avrebbe ricavato, pagando 23 chili di uva passa per i servigi di un morisco, una traduzione. Presentare la propria opera come la copia di un manoscritto inedito scritto in una lingua «esotica», scrive in quella nota Rico, era consuetudine inveterata soprattutto per i racconti cavallereschi che Cervantes – e con lui Don Chisciotte –decide di parodiare. Rico aggiunge che Benengeli riecheggia comicamente il significato di «melanzana», e che altre e più sottili interpretazioni del nome sono da escludere.

Queste constatazioni non sembrano soddisfare del tutto Alberto Manguel, che all’inizio di Don Chisciotte e i suoi fantasmi edito ora da Sellerio nella traduzione di Maria Nicola (pp.120, € 12,00) – offre la prospettiva di un Cervantes «sovversivo», che attribuendo nella finzione il proprio romanzo a un arabo, negli anni della definitiva cacciata non solo dei musulmani, già avvenuta un secolo prima, ma anche dei moriscos e dei marranos, vale a dire arabi e ebrei che avevano dichiarato di essersi convertiti al cattolicesimo, assume su di sé il compito di testimoniare la profondità e la complessità delle radici culturali della Spagna. Alla fine del suo breve saggio Manguel preciserà che tale altissimo compito non è da attribuire a Cervantes in persona, del quale d’altronde non si conoscono esattamente le opinioni politiche, né si può sapere se gli innumerevoli commenti denigratori nei confronti dei musulmani che egli dissemina nelle sue opere siano il frutto di un deliberato «realismo», ovvero un tentativo di restituire il senso comune del proprio tempo. Piuttosto, è la grandezza e la complessità del Don Chisciotte, «il più grande romanzo di sempre», avverte Manguel, a eccedere, e di molto, le intenzioni e la consapevolezza del suo autore.

La questione del Benengeli e della «traduzione» di Cervantes occupa la maggior parte delle agili, ancorché erudite, pagine del libro, anche perché Manguel ne fa discendere una digressione – affascinante e di evidente sapore borgesiano – sui meccanismi di manipolazione dell’identità collettiva all’interno di una società, passando dalle reliquie di Santo Stefano ai famigerati «libri plumbei» che avrebbero dimostrato la preesistenza dei mori in Spagna rispetto alla stessa lingua castigliana. I libri, in realtà dei dischi recanti incisioni in lingue morte di difficile decifrazione, furono dichiarati falsi e tali vengono ritenuti ancora oggi. Ciò serve allo scrittore argentino per proporre la distinzione tra finzione e falsificazione (e tra invenzione e travisamento), la prima essendo un elemento utile, e accettabile, ai fini della «invenzione» del racconto comune (in questo caso, dell’identità nazionale spagnola).

Altre considerazioni interessanti, sparse in capitoli non necessariamente tra loro organici, punteggiano Don Chisciotte e i suoi fantasmi: un rapido confronto tra l’inglese musicale e profondo di Shakespeare, e lo spagnolo «torrenziale, disinvolto, generoso» di Cervantes; una riflessione sulla mise en abyme vorticosa che innerva il Chisciotte e contagia tutti, dall’autore al narratore allo «sfaccendato lettore» fino ai personaggi, che leggono delle avventure del Cavaliere dalla Triste Figura già all’interno delle pagine del libro; un’altra, infine, sul «tempo di Don Chisciotte» – e qui Manguel non trattiene una vena polemica contro «l’innominabile attuale» –, il quale «non può vivere se non nell’azione morale», e infatti muore quasi subito dopo aver promesso di arrestare la sua erranza: nel tempo «privo di profondità», nel quale gli specchi non riflettono più il mondo ma soltanto le quattro mura di casa sua, il cavaliere avvizzisce, come qualunque altro uomo al posto suo.