Nell’oscurità dello schermo, Alberto Laiseca, che era noto per le sue apparizioni pubbliche e le incursioni nel cinema e nella Tv, appariva all’ombra di un ventilatore, con due eccentrici baffi da cui poteva spuntare da un momento all’altro una sigaretta ardente, mentre la sua voce nera pronunciava parole terrificanti. In El artista, uscito nel 2010, raccontò la sua esperienza come attore nel film omonimo di Gastón Duprat e Mariano Cohn; ma già negli anni 2000, Laiseca era conosciuto soprattutto come il protagonista dei Cuentos de terror, un programma televisivo di culto in cui recitava frammenti di Edgar Allan Poe, Stephen King e altri, che gli diede una popolarità sufficiente – raccontava con orgoglio – per farsi riconoscere per strada dai «cartoneros».

Fra emulare e copiare
Nato casualmente a Rosario nel 1941, Laiseca detestava essere considerato un «rosarino»: la sua famiglia, in realtà, rientrò subito a Camilo Aldao, località nella provincia di Córdoba, dove – rimasto orfano a tre anni – un severissimo padre gli proibiva di andare a sentire le vecchiette che raccontavano storie horror. «Mi credevo tutte quelle storie e me la facevo sotto», commentò, dopo avere comunque ascoltato, pescando presumibilmente da quei racconti, i semi che lo avrebbero trasformato in un mirabile esponente del genere fantastico.

Al resto contribuirono la città che lo accolse, Buenos Aires, e le molte letture di Poe, Bram Stoker e Gustav Meyrink, autori (questi e altri) così universalmente ammirati da legittimarne il plagio, che «oltre a essere un omaggio al creatore, contiene implicitamente una forma d’amore», esplicitò Laiseca. Dove passa il confine fra l’emulazione e l’atto di copiare tout court lo scrittore argentino lo spiega con raffinato sarcasmo in Per favore, plagiatemi! (traduzione di Loris Tassi, a cura di Federica Arnoldi, Luca Mignola e Alfredo Zucchi, pp. 233, euro 20,00).

«Si è detto che un uomo non merita il titolo di artista se non ha plagiato almeno sette volte» – scrive Laiseca, che ribadisce: «Chiunque può creare. Plagiare è per gli eletti». Concepito a mo’ di parodia, facendo filtrare la sua devozione per Kafka, Joyce, Lezama Lima, Bradbury, e per il contestato Borges, il testo dello scrittore argentino si muove tra la narrativa e la saggistica attraverso un’antologia di aforismi, componendo per certi versi un manifesto contro la sua invisibilità: pur avendo pubblicato i primi racconti all’inizio degli anni Settanta (sotto lo pseudonimo di Dionisios Iseka), e sebbene sostenuto da Osvaldo Soriano, Laiseca non ottenne infatti particolari riconoscimenti per il suo primo romanzo È il tuo turno (Arcoiris, 2017), che non trovava editori. Sebbene allora i suoi scritti circolassero solo di mano in mano, Laiseca godeva già di una certa stima, che venne a galla quando finalmente la rivista «Babel» decise di puntare su di lui. Nella fase successiva alla dittatura, l’allora mitico «grupo Shangai» – di cui facevano parte Martín Caparrós e Alan Pauls, che vedevano nell’esotismo una delle massime aspirazioni della letteratura argentina della fine degli anni Ottanta, individuò in Laiseca un fondamentale esponente.

Riscattato dalla periferia letteraria, questo «monstruo» sproporzionato e alto quasi due metri, un «erudito in cose strane», un barbaro insonne e amante del buon whisky, per potersi permettere di scrivere non disdegnava lavori da centralinista o da correttore di bozze nel quotidiano La Razón.

Il delirio libera
L’iperbole è l’unità di misura della sua narrativa, e Laiseca lo disse ben chiaro: «chi non è esagerato non vive. Il delirio libera». E, in effetti, la dismisura che apparteneva alla sua persona si riversa sui suoi personaggi, sui suoi mondi così efficacemente anti-borgesiani, che distorcono temi quali la guerra, il potere, il denaro. La critica ha ormai riconosciuto in Laiseca l’esponente di un realismo delirante, il cartografo di una geografia smisurata, popolata da eroi e esseri magici, componenti di una sorta di implicito manifesto della autonomia dalla politica e dal mercato.

Non a caso, si deve a lui il romanzo più lungo che sia stato scritto in Argentina, Los sorias, pubblicato nel 1998, dove racconta la guerra tra due grandi nazioni – Soria y Tecnocracia – e i deliri di potere dei dittatori che le governano. Trovare un editore per questo monumentale scritto non fu facile, ma nel frattempo si sommavano gli entusiastici giudizi di un ristretto gruppo di autori che ebbero l’opportunità di leggere il manoscritto di 1300 pagine: fra loro, Rodolfo Fogwill (che disse di aver odiato e adorato Laiseca durante le centocinquanta ore di lettura), César Aira (che ne spinse la pubblicazione con Ediciones Simurg), e Ricardo Piglia, autore di un generoso prologo della prima, ricercatissima edizione in 350 copie numerate e firmate dall’autore, con in copertina una mappa disegnata da Guillermo Kuitca.

Nella sua prefazione, Piglia esaltava il «movimento lentissimo» testimoniato dai dieci anni necessari per scriverlo, venti per editarlo e trenta per convertirlo in un classico, e lo eleggeva a miglior romanzo scritto in Argentina, dopo I sette pazzi (Einaudi 2013) di Roberto Arlt.