Alla vigilia della manifestazione antigovernativa «11/11», lanciata a metà ottobre e tuttora senza madrine o padrini ufficiali, è il destino di Alaa Abdel Fattah a sovrastare Il Cairo e Sharm el-Sheikh.

L’ATTIVISTA EGIZIANO, prigioniero politico sotto ogni governo da Mubarak ad al-Sisi, passando per il fratello musulmano Morsi, è in sciopero della fame da 220 giorni. Da lunedì ha rinunciato anche all’acqua. Nei padiglioni della Cop27, la conferenza Onu sul clima che quest’anno ha scelto di legittimare con la sua presenza il regime di al-Sisi, il nome di Alaa Abdel Fattah risuona da giorni, tra ong e leader politici occidentali.

Alla fine delle tavole rotonde tanti interventi si chiudono con «Non siete stati ancora sconfitti», il titolo del suo libro pubblicato in Italia da Hopeful Monster. Ieri si è svolta l’azione più significativa in una Sharm el-Sheikh blindata, dove la protesta è stata anestetizzata dal governo con divieti e spazi speciali dove relegare il dissenso: centinaia di persone, vestite di bianco come i prigionieri egiziani, hanno gridato il loro slogan, «Liberatelo, liberateli tutti», tutti e 60-100mila detenuti politici stimati.

Ieri a parlare è stata di nuovo la famiglia, una dei pilastri del dissenso della storia contemporanea dell’Egitto: Alaa, in carcere di nuovo dal 2019 (condannato a cinque anni nel dicembre 2021), potrebbe essere stato alimentato a forza.

LA DENUNCIA GIUNGE dopo la notifica ufficiosa delle autorità carcerarie: il blogger è «sotto trattamento medico». Una formula volutamente vaga, consegnata alla madre, Laila Seif, che ieri ha raggiunto la prigione di Wadi al-Natrun, mega-carcere descritto da al-Sisi come il non plus ultra del rispetto dei diritti dei detenuti.

Cento chilometri dal Cairo, lontano da occhi indiscreti e dalle visite familiari: «È stato condotto un intervento sanitario, le autorità giudiziarie sono state informate – hanno detto a Seif – Alaa sta bene». Parole che hanno avuto l’effetto opposto: non hanno tranquillizzato, hanno impaurito. Il timore è l’alimentazione forzata, palese violazione dei diritti umani.

A preoccupare è anche un altro arresto, quello di Ahmed Nazir al-Helw, avvocato di diversi prigionieri politici, alcuni membri della Fratellanza musulmana, martedì al Cairo. Una detenzione che molti vedono legata alla protesta prevista per oggi dopo la preghiera di mezzogiorno, ribattezzata «11/11», di per sé vietata dalla legge anti-terrorismo del 2013, uno dei primi atti del golpista al-Sisi.

Chi ci sia dietro non è chiaro, a far girare l’appello da qualche settimana sono video e hashtag sui social media. In attesa dell’arrivo del presidente statunitense Joe Biden, l’Egitto non sa cosa attendersi da un venerdì di potenziale protesta: il capo della Casa bianca parlerà di fronte ai rappresentanti di duecento paesi di clima ed emergenza ambientale, mentre fuori un intero paese soffoca di repressione.

A CENTINAIA sono stati già arrestati preventivamente, 300 solo al Cairo, attivisti, dissidenti, avvocati, comuni cittadini. A 165 di loro, scrive The New Arab, sarebbero già stati comminati quindici giorni di detenzione. Secondo l’agenzia indipendente Mada Masr, molti sono accusati di aver chiamato alla piazza con messaggi vocali e video in cui criticano il regime, lamentano la crisi economica, condannano le politiche del governo.

E Il Cairo è già militarizzata, come Alessandria, Luxor, Giza: agenti in borghese e mezzi militari nelle piazze principali, poliziotti che consegnano ordini di chiusura ai negozi, eventi culturali e sportivi sospesi fino alla giornata di sabato. Lo spettro della rivoluzione del 2011 spaventa ancora.