Al lavoro nelle case degli orrori
Migrazioni Partono pagando agenzie truffatrici, arrivano per un salario da fame in famiglie che le abusano. È il destino di moltissime donne filippine, lavoratrici domestiche nelle monarchie del Golfo. Tante tornano in una bara, poche riescono a scappare
Migrazioni Partono pagando agenzie truffatrici, arrivano per un salario da fame in famiglie che le abusano. È il destino di moltissime donne filippine, lavoratrici domestiche nelle monarchie del Golfo. Tante tornano in una bara, poche riescono a scappare
Angelica mostra la barca sulle rive del lago dove vive in un villaggio di pescatori a nord di Manila, è una piroga di sette metri che serve al marito per uscire a pescare in maniera indipendente: «È quel che sono riuscita a comprare con i pochi risparmi fatti negli anni in cui ho lavorato nella Penisola araba».
La giovane è una delle centinaia di migliaia di donne filippine che parte ogni anno per andare a fare la domestica nelle case di Kuwait, Oman, Emirati e Arabia saudita. «La Penisola araba è un brutto posto», racconta Angelica che una volta è stata in Oman e un’altra in Kuwait e in entrambi i casi è stata maltrattata oltre misura dai suoi datori di lavoro.
PER EMIGRARE ci si rivolge alle agenzie, ce ne sono migliaia in tutto il paese e molte truffano le persone che partono, facendo pagare per pratiche che sarebbero gratuite, falsificando le analisi mediche pur di farle partire, dicendo loro che hanno ottenuto il visto anche se il visto non c’è ancora. Ci sono anche agenzie oneste, ma i racconti di pressioni per accettare un lavoro purché sia o i tentativi di farsi pagare anche se non si parte, magari minacciandoti anche fisicamente, non sono affatto rari.
Si parte per i paesi arabi perché costa meno e perché c’è domanda di domestiche. Ma, come dice Angelica, non è un buon posto dove emigrare. Negli ultimi dieci anni 27 filippini emigrati sono morti per violenze subite dai datori di lavoro. L’ultima è Jullibee Ranara, strangolata in Kuwait dal figlio dei padroni che l’aveva probabilmente violentata e poi abbandonata nel deserto. Tre anni prima era stata la volta di Joanna Daniela Demafelis, altra ragazza violentata e lasciata due anni in un frigorifero.
Nell’emirato dal 2018 sono state uccise quattro lavoratrici domestiche. Le loro storie, atroci, sono il frutto di un sistema dell’immigrazione che non protegge in nessun modo lavoratrici e lavoratori, come i media di tutto il mondo hanno scoperto negli anni in cui si costruivano gli stadi per gli assurdi mondiali in Qatar.
A ogni ritorno di bare il governo filippino fa la voce grossa, l’allora presidente Duterte tenne una conferenza stampa in cui sputò fuoco e fiamme e sospese l’accordo di scambio di lavoro: niente più domestiche filippine in Kuwait.
«Il governo li chiama eroi dei nostri tempi e li celebra di continuo e quando i corpi delle donne tornano in una bara sospende gli accordi di emigrazione…che poi riprendono dopo una visita ufficiale, rassicurazioni e qualche stretta di mano», ci racconta Gina Apostol, scrittrice filippina che vive negli Stati uniti (il cui romanzo La rivoluzione secondo Raymundo Mata è pubblicato in Italia da Utopia).
Il fatto è che l’emigrazione è un ottimo strumento per evitare di dare un modello di sviluppo alle Filippine, paese in cui la politica è appannaggio di poche famiglie – anche “i buoni” Aquino sono una dinastia – e dove negli ultimi anni ha governato il populista ultra conservatore Duterte e oggi è presidente Ferdinand «bongbong» Marcos, figlio del dittatore cacciato nel 1986 da un’insurrezione popolare. La figlia di Duterte è la sua vice.
LE STORIE di abusi, violenze sessuali, violazioni dei contratti e dei diritti sono comuni tra le filippine che lavorano nella Penisola araba e la ragione è il sistema che regola l’immigrazione (la kafala), per cui lo Stato concede a privati o imprese permessi di sponsorizzazione per assumere lavoratori stranieri. Lo sponsor paga il viaggio, fornisce l’alloggio in strutture simili a dormitori o, per i domestici, a casa del datore di lavoro. Lo sponsor può essere un’agenzia di reclutamento. Nella maggior parte dei casi i lavoratori hanno bisogno del permesso dello sponsor per cambiare lavoro, licenziarsi, persino lasciare il paese.
Lasciare il posto di lavoro senza autorizzazione è un reato che comporta potenzialmente la detenzione, anche se si fugge da abusi. Per le lavoratrici domestiche le regole sono ancora peggiori. Non è raro che venga sequestrato il telefono, magari restituito un’ora al giorno. In alcuni di questi paesi il salario (basso) cambia con la nazionalità di provenienza.
Le agenzie giocano spesso un ruolo ambiguo o peggio. «Nonostante alcuni siano operatori etici, molti, se non la maggior parte, strutturano intenzionalmente gli accordi con i datori di lavoro in modo da costringere i lavoratori meno qualificati a lavorare in condizioni di disagio e pagare tariffe elevate per il reclutamento.
A volte agenzie e datori di lavoro usano pratiche illegali come la sostituzione del contratto, in cui i lavoratori migranti sono costretti ad accettare condizioni contrattuali diverse e peggiori rispetto a quelle promesse prima della partenza», si legge in un rapporto dell’International Labour Office sul reclutamento nella Penisola araba.
E COSÌ È ANDATA ad Angelica, che è finita in Oman senza un visto, lavorava 20 ore al giorno, veniva maltrattata e le si chiedeva di lavorare per i parenti dei datori di lavoro (in teoria non si potrebbe). Dopo mesi di angherie, mentre la famiglia era in vacanza, ha finto di portare via la spazzatura ed è fuggita, riuscendo a farsi caricare su un taxi al terzo tentativo: i tassisti sanno che le donne scappano e non le caricano ma Angelica ha finto di dover andare all’ambasciata filippina a svolgere delle pratiche.
Così le avevano suggerito di fare via chat i volontari di uno sportello che aiuta i migranti a Manila, il John Neumann Center, posto non lontano dall’aeroporto all’interno di una basilica «dei migranti». «Ci sono volute ore di viaggio, non avevo un soldo in tasca e morivo di paura, le storie che si raccontano sui tassisti non sono delle più belle». Essere molestate nel deserto da loro o ricevere la minaccia «ti porto nel deserto e ti ci lascio» dai datori di lavoro è piuttosto comune.
Oggi Angelica è tornata a casa, è molto povera e intorno a lei altri milioni sono pronti a partire. Metà delle emigranti totali dalle Filippine sono donne e fanno le domestiche. Per loro c’è un cammino difficile, ma nell’Asia che cresce come nessuna altra regione al mondo, per tante filippine l’alternativa sono baracche nei sobborghi di Manila, lavoretti precari e malpagati o la miseria più nera, come quella di Nina, 28 anni e tre figli che non ha superato gli esami medici per partire e se ne rallegra.
«Ho visto in tv la bara di Jullibee e ho deciso di non partire, ma l’agenzia mi perseguita chiedendomi indietro soldi che non ho». Meno di 200 euro ma per lei e la sua famiglia, che vive nella baracca più desolata vista negli slum di Manila, sono una fortuna.
«Serve di Stato», il documentario di Angelo Loy e Martino Mazzonis sulle storie di emigrazione e lavoro di quattro donne filippine nei paesi del Golfo andrà in onda lunedì 4 settembre alle ore 23.15 per la trasmissione di RaiTre «Il fattore umano».
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