Al crocevia di Cassino, cinquant’anni di una fabbrica
Per osservare e tentare di capire cosa abbia voluto e cosa voglia dire ancora la presenza del sito industriale oggi Stellantis di Cassino-Piedimonte San Germano nel territorio del basso Lazio, sono disponibili un paio di opzioni che bisogna provare a tenere insieme. La prima invita a costeggiare l’infinito perimetro dello stabilimento – i cancelli di ingresso e uscita dei lavoratori e delle lavoratrici, i capannoni, la centrale termica, il centro sportivo divenuto hub vaccinale Covid-19 in tempo di pandemia, lo snodo ferroviario che comunica con l’impianto per movimentare merci e vetture – provando a immaginare cosa ci fosse lì prima che la Fiat si “meridionalizzasse”. L’alternativa, più suggestiva e seducente, è invece scegliere di guardare il tutto dall’alto, inerpicandosi lungo gli oltre 500 metri di altitudine dall’Abbazia di Montecassino, dalla cui Loggia del Paradiso si può scattare una foto forse capace di tenere insieme il senso della storia di questo territorio di confine tra il centro e il Sud dell’Italia. È qui che il futuro patrono d’Europa Benedetto da Norcia, nel 529 d.C., costruisce la prima chiesa di Montecassino e conia il motto ora et labora, prega e lavora.
È in questo pezzo d’Italia che nel febbraio 1944, si consuma uno dei momenti più drammatici della Seconda guerra mondiale, lo sfarinamento da parte degli anglomericani, bloccati dai nazisti lungo la linea Gustav, della secolare abbazia benedettina e della città di Cassino a suon di bombardamenti aerei. È tenendo insieme questi due punti di osservazione che si diradano le polveri della distruzione e si riesce a cogliere il significato di quanto accaduto il 16 ottobre 1972 allo stabilimento Fiat di Cassino. È un lunedì d’autunno quando dalla sua catena di montaggio esce la prima autovettura prodotta nel più grande insediamento industriale della casa torinese nel Mezzogiorno. A venire alla luce è una Fiat 126 di colore rosso, una nuova utilitaria a due porte che coniuga le caratteristiche delle auto simbolo del boom economico italiano. La 126 ha un motore posteriore come la 600 e si configura come un incontro tra la linea della 127 e le caratteristiche tecniche della già storica e iconica 500. Come raccontato in un cinegiornale Fiat, la 126 ha quattro posti, due cilindri raffreddati ad aria, ventitré cavalli, quattro marce. È un’auto che supera i cento chilometri orari «quanto occorre per una buona accelerazione nel traffico urbano e una buona velocità di crociera sulle autostrade» e «risponde alle norme europee antinquinamento». Le prime prove di produzione sono iniziate nel mese di luglio. I lavori per la nascita dello stabilimento hanno invece preso il via il 15 settembre 1970, dopo che il 22 gennaio di quell’anno, Paolo Emilio Taviani, ministro della Cassa per il Mezzogiorno, ha firmato il decreto che stabilisce il sorgere della Fiat nell’entroterra meridionale del Lazio, sfera di influenza di Giulio Andreotti. Il 15 marzo 1971 si iniziano a intravedere le strutture dei primi capannoni. Il 23 settembre 1972 la produzione si avvia ufficialmente su un’area di due milioni di metri quadri scaturiti da settanta miliardi di lire di investimenti. Gli operai assunti sono perlopiù contadini, operai edili, artigiani. Provengono dal cassinate, dalle sue aree limitrofe e da fuori regione. Hanno in media 25-30 anni. Li chiameranno metalmezzadri, operai da un lato e per sempre contadini dall’altro. In molti sono poi coloro che hanno già conosciuto la grande fabbrica fordista.
Sono andati anni prima a Torino lasciando Sardegna, Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Molise ed adesso vedono, nell’apertura di uno stabilimento nell’area centro-Sud del Paese, un’occasione per portare la loro esperienza, chiudere con la metropoli industrializzata, trasferirsi in un contesto di provincia, vivere in una casa indipendente, coltivare un pezzo di terra utile all’economia familiare e riavvicinarsi ai paesi di origine. Sono gli emigranti di ritorno. Siamo tre anni dopo lo scoppio dell’autunno caldo e pochi mesi dopo la nascita dello Statuto dei lavoratori quando nel basso Lazio inizia a prendere definitivamente forma un pezzo di storia dell’industria automobilistica italiana. Mentre Torino fatica a gestire la sua trasformazione in gigantesca fiatopoli e Mirafiori – in termini di risorse umane la più grande fabbrica del meridione – è ormai un catino ribollente di rabbia e lotta operaia, i vertici Fiat decidono di delocalizzare verso Sud la produzione. L’obiettivo, favorito dai copiosi finanziamenti, è il decongestionamento produttivo e occupazionale. Per conseguirlo, non dovranno essere gli operai a cercare la fabbrica. Sarà la fabbrica che andrà a cercarli. Laggiù dove sono nati. I comuni del cassinate vedono così crescere nel giro di pochi anni la propria popolazione.
Più 36% per Piedimonte San Germano, più 38% per Aquino, più 18% per Cassino. Anche nel basso Lazio però, l’industria metalmeccanica, moderna e imponente, insieme alla crescita economica e alle opportunità del cosiddetto indotto, impone fatica, sudore e rapporti di lavoro gerarchizzati, dettando nuovi ritmi di vita ad un territorio da sempre a vocazione agricola. «All’epoca molti si chiesero cosa avesse spinto la Fiat a scegliere Cassino-Piedimonte San Germano per installare la sua fabbrica. Il primo elemento fu l’ampia disponibilità di manodopera e le infrastrutture già esistenti: l’autostrada del Sole, la strada statale Casilina, la bretella dell’autostrada del Sole dal casello di Cassino, la ferrovia Roma-Napoli; la linea ferroviaria Cassino-Villa Santa Lucia-Piedimonte, infine l’esistenza di un nucleo industriale Cassino-Pontecorvo», racconta Francesco Di Giorgio, segretario della Camera del Lavoro di Cassino e membro del Comitato centrale Fiom-Cgil (1974-1980) ed autore del volume Dalla Fiat a Stellantis. 50 annni di evoluzione economica del Lazio Meridionale 1972-2022 (Centro documentazione e studi cassinati, pp. 314). Ma la conflittualità non mancherà neanche nello stabilimento di Cassino, la Mirafiori del Sud che nel corso della sua storia arriverà a contare oltre 10.000 addetti contemporaneamente. «Cassino fu crocevia di gruppi terroristici ben organizzati e strutturati, ma anche area di contestazione radicale», ricorda ancora Di Giorgio. A partire dal 1976, una serie di incendi dolosi, esplosioni, aggressioni, gambizzazioni e attentati dinamitardi segnano la vita della grande fabbrica di provincia. Saranno il preludio all’uccisione del capo dei servizi di sorveglianza della Fiat di Cassino, avvenuta il 4 gennaio del 1978. L’omicidio viene prima rivendicato con una telefonata al quotidiano Il Messaggero. Successivamente, a Roma, verrà ritrovato un volantino firmato dalla sigla Lotta armata per il comunismo. Con l’omicidio di De Rosa si chiude la prima fase di vita della Fiat di Cassino. Sempre in quel 1978, per saldare le lamiere della Ritmo, nella fabbrica ai piedi dell’abbazia benedettina verrà installato il primo Robogate. Sarà una rivoluzione tecnologica. Due anni dopo, nel 1980, la marcia dei 40.000 quadri Fiat tra le strade di Torino sancirà la morte dell’operaio. La grande fabbrica cambierà ancora.
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Box: le auto prodotte a Cassino
Nel 1972 inizia la produzione della 126. Nel 1974 a Cassino viene prodotta la 131. Sarebbero poi arrivate la Ritmo (1978), la Regata (1983), la Tipo (1987), la Tempra (1988), la Bravo e la Brava (1995), la Marea (1999), la Stilo (2001), la Croma (2005), la nuova Bravo (2007), la nuova Lancia Delta (2008), le Alfa Romeo Giulietta (2010), Giulia (2016) e Stelvio (2016), la Maserati Suv Grecale (2022).
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Intervista: Dal primo giorno all’ultimo con passione
Vincenzo Antenucci è un sindacalista in pensione. Vive a Sant’Elia Fiumerapido, una manciata di chilometri da Cassino. È nato nel 1946 a Vastogirardi, paesino di montagna dell’Alto Molise. Ha lavorato in Fiat dal 1969 al 2003. Prima a Torino, poi a Piedimonte San Germano dove ha scritto importanti pagine di storia sindacale.
Cosa ricorda del primo giorno in Fiat?
Sono entrato in Fiat il 31 marzo 1969, dopo il servizio militare. Un amico mi disse che a Torino c’erano buone possibilità di essere assunto. Inoltrai la domanda nel dicembre del ’68. Qualche mese dopo entrai alla Iveco di Torino con mansione di collaudatore di banco. Fu il mio primo lavoro in assoluto. Quel giorno mi venne a prendere un caporeparto. Mi spiegò il lavoro da fare e mi affiancò ad un altro dipendente per una settimana.
Quale fu l’impatto con Torino città?
Non vorrei esagerare, ma fu traumatico. In quel periodo le assunzioni in Fiat furono massicce. Gli alloggi scarseggiavano. Trovai una pensione in zona stazione di Porta Nuova. Il proprietario mi disse che non potevo rimanere per più di una settimana. Rimasi senza un tetto. Per fortuna c’erano le vacanze pasquali e andai da mia sorella a Roma. Al ritorno, trovai un’altra pensione. Cambiai diversi alloggi nei miei sette anni torinesi.
Quando entrò in contatto con il sindacato?
Iniziai a frequentare la sede del sindacato unitario. Fui solo un attivista della Flm, la Federazione lavoratori metalmeccanici che abbracciava Fiom, Fim e Uilm. Quando arrivai a Cassino invece – era il 1975 – fui eletto delegato di squadra. Da quel momento in poi, fino alla pensione, sono stato rappresentante Fiom.
Perché ha deciso di tornare verso Sud?
Ognuno di noi sogna di ritornare al suo paese di origine. Nel mio caso, almeno provai ad avvicinarmi.
Cosa ricorda del primo giorno di lavoro a Cassino?
Venivo da una realtà diversa e gli inizi non furono dei migliori. Fui messo al reparto lastroferratura, dove facevamo le saldature della 126. Lì c’erano fumi e polveri. Oltre alla fatica del lavoro, si respirava male. Poi passai alla catena di montaggio. Anche lì la fatica era tanta. Per fortuna però, l’ambiente era più pulito. Per migliorare le condizioni di lavoro abbiamo fatto lotte immense.
Che differenze e che analogie c’erano tra Torino e Cassino?
Per le lotte sindacali, Torino è stata sempre una città all’avanguardia. Lì c’erano i sindacati strutturati, con grande organizzazione ed esperienza. A Cassino, in uno stabilimento nuovo, non fu facile iniziare questo tipo di attività. I contratti e gli accordi non si conoscevano. Per via di questa impreparazione, l’azienda tendeva a fare il bello e il cattivo tempo… Mano a mano abbiamo iniziato a costruire il sindacato, capendo anche i tempi di lavoro e di pause. C’era chi prendeva quaranta minuti di pausa. La stessa gerarchia, i capi per capirci, non aveva del tutto chiara la situazione lavorativa. I rappresentanti sindacali torinesi non ci hanno mai abbandonati. Venivano spesso a Cassino per riunirsi. Ci raccontavano come andavano le cose su e come dovevano andare a Cassino e in tutti gli stabilimenti del Sud nati in quegli anni. Un’altra cosa da non dimenticare è che Cassino era uno stabilimento di carrozzeria, di assemblaggio, quindi molto complesso sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro. Gli accordi strappati da noi erano all’avanguardia.
Può dirci qualcosa degli episodi di lotta armata che si verificarono? E quali, secondo lei, le cause della radicalizzazione dello scontro all’interno della fabbrica?
L’omicidio di Carmine De Rosa nel gennaio del ’78 fu un evento tragico, ci colse di sorpresa. La reazione del sindacato fu forte e unitaria. Il consiglio di fabbrica di quelle ore fu drammatico. La cosa ci segnò profondamente. Siamo stati però in grado, anche grazie al Pci locale, di arginare questa deriva di violenza e rimanere nei canoni della lotta democratica all’interno della fabbrica. Le condizioni di lavoro erano dure. Questo non va dimenticato. Uno dei problemi fu sicuramente il carattere spontaneo di alcune lotte all’interno di uno stabilimento giovane.
Quando sono entrate le prime donne all’interno della Fiat di Cassino?
Tra il ’77 e il ’78, la Fiat doveva assumere circa 2000 operai. All’ufficio di collocamento di Piedimonte San Germano, nella lista di persone in cerca di lavoro c’erano molte donne. La Fiat però aveva delle forti riserve su assumere manodopera femminile perché, a suo giudizio, non era adeguata alla catena di montaggio. La situazione si sbloccò solo dopo che occupammo l’ufficio di collocamento. In alcune situazioni, le donne hanno dimostrato di lavorare meglio degli uomini. Per esempio, nei lavori di minuteria o in quelli di selleria.
A un certo punto, Cassino subì anche una profonda trasformazione tecnologica…
Iniziò nel 1978 per la produzione della Ritmo con l’introduzione dei primi robot teleguidati. Si partì dalla lastratura, dove avveniva l’assemblaggio delle scocche. Poi si passò alla verniciatura, dove, all’interno di cabine, erano gli operai gli addetti allo spruzzo della vernice. Alcuni tipi di lavoro vennero senza dubbio migliorati.
In una battuta, chi è il metalmezzadro?
Il metalmezzadro è colui che ha lasciato l’agricoltura ed è andato a lavorare in fabbrica. Questa zona era piena di persone che anche dopo l’assunzione nella grande industria non ha mai smesso di fare lavori agricoli.
Quando è andato in pensione che fabbrica ha lasciato?
Una Fiat in cui il sindacato riusciva ad avere buoni rapporti in favore dei lavoratori.
In chiusura, cosa hanno rappresentato per lei la Fiat e il sindacato?
La Fiat è stata l’opportunità di lavorare e farmi una famiglia. Il sindacato mi ha permesso di migliorare la qualità della mia vita e quella dei lavoratori. Mi ha insegnato cose che prima non riuscivo a comprendere, conducendomi verso l’emancipazione. È stato una scuola di democrazia.
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