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Al bar di Mama Africa

Al bar di Mama AfricaIl bar di Mama Africa a Ventimiglia – Shendi Veli

Reportage A Ventimiglia, dove la frontiera si fa tangibile come in una zona di guerra, c’è chi fa entrare tutti, senza chiedere i documenti e dispensando umanità: una signora di 55 anni, Delia. «Tutti abbiamo diritto a un futuro migliore. Se i residenti dicessero a questi ragazzi anche solo “buongiorno”, basterebbe già quello a cambiare le cose»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 agosto 2018
Shendi VeliVENTIMIGLIA

Alcuni lo chiamano con disprezzo «il bar dei negri». Si trova a pochi passi dalla stazione di Ventimiglia. «Gestisco questo posto da 15 anni» dice Delia, 55 anni, figlia di commercianti. «Tre anni fa mi ha aiutato mio fratello per alcuni mesi perché seguivo mia madre in ospedale, è stato lui ad aprire le porte ai primi ragazzi. Io li chiamo ragazzi, immigrati non mi piace, e poi immigrati lo siamo un po’ tutti».

NELL’ESTATE DEL 2015 la Francia ha applicato gli «Accordi di Chambery» che prevedono la possibilità di respingere i migranti da un paese all’altro. Per farlo bisogna violare un accordo chiave dell’Ue, Schengen, che vieta controlli sistematici alle frontiere. Da tre anni sono iniziate le operazioni al confine che rimandano indietro chi è sprovvisto di documenti francesi. Molti migranti in transito rimangono a lungo bloccati a Ventimiglia.

Nel bar di Delia a mezzogiorno ci sono poche persone. A un tavolo tre ragazzi parlano. Due sono attivisti della rete 20k, che unisce diversi gruppi locali impegnati nella solidarietà. Il terzo vive a Ventimiglia da qualche anno, viene dal Pakistan. «Quest’anno c’è meno gente» mi dicono.

«MOLTI ATTIVISTI sono stati allontanati con denunce e fogli di via. E i migranti sono vessati. Tra i respingimenti brutali della polizia francese e le retate di quella italiana. Il campo dei Balzi Rossi, dal quale nel 2015 partivano le manifestazioni per chiedere l’apertura dei confini, è stato sgomberato due anni fa. Questa primavera è stata evacuato anche l’accampamento a Via Tenda. Quasi ogni settimana partono pullman pieni di persone fermate per strada e spedite all’hotspot di Taranto, misura costosa e inutile perché chi può torna qui, per provare a uscire dall’Italia. Oggi i pochi rimasti in città si devono nascondere nelle anse del fosso. Fare solidarietà attiva è sempre più difficile mentre fiorisce il business dei passeur, persone che offrono passaggi per la Francia in cambio di soldi».

AL BANCONE DEL BAR c’è la signora Delia, le dà una mano Alessandra, sua nipote. «Non posso più permettermi di assumere. Da ormai tre anni i clienti non entrano più in questo bar. Solo perché faccio entrare tutti e do una mano a chi ha bisogno. Sono stata insultata e boicottata da chi passava di qua e vedeva qualche ragazzo nero fuori o al bancone. Oggi rischio di chiudere. Ho problemi di salute e andare avanti è faticoso». Il bar Hobbit è centrale eppure, a parte solidali e migranti, non entra nessuno.

NEL POMERIGGIO ARRIVANO due ragazze, anche loro attive nelle azioni solidali che dal 2015 hanno preso vita dentro ma soprattutto fuori le ong che operano sul campo. «A Ventimiglia ce ne sono pochi di posti così» dicono «nessuno in centro. Negli altri bar rispondono male ai ragazzi stranieri, oppure chiamano la polizia. Delia è stata tra i pochi ad aprire le porte. Qui possono entrare e consumare o anche solo riposare e caricare il telefono. Molti arrivano e vengono a sapere di questo bar tramite il passaparola». Il bar di Delia offre alle persone in transito una delle cose più preziose nel percorso doloroso e solitario della fuga: la socialità.

«IO SONO UN’IMMIGRATA DOC» dice Delia «appena nata venni in Liguria con i miei genitori dal Sud. A tre anni emigrai in Australia. Lì ho fatto le scuole elementari. A 10 anni i miei mi hanno riportata in Italia. Mi vestivo, mangiavo, e parlavo in maniera diversa dai miei coetanei e per questo sono stata maltrattata. Mi sono sentita immigrata in patria. Ho voluto trasformare la mia esperienza negativa in qualcosa di positivo. Evitare che altri patissero le mie stesse sofferenze». Il bar ha una saletta sul retro, dentro ci sono tavoli e scaffali. Libri, quaderni e materiale scolastico. Due anni fa Delia e una sua amica hanno organizzato un corso di italiano gratuito.

A VENTIMIGLIA LE STRUTTURE per l’accoglienza sono scarse. L’unica attrezzata è il campo della Croce Rossa, trasferito fuori città per le lamentele dei residenti. Per entrarci bisogna registrarsi e fare domanda di asilo in Italia. Ma la maggior parte delle persone che arrivano al confine desiderano andare in Francia o Gran Bretagna, richiedere asilo in Italia sarebbe controproducente. Altri scappano dalla povertà e probabilmente non otterrebbero lo status di rifugiato. Dopo gli sgomberi molti vivono nascosti, vengono per la distribuzione di un pasto gratuito da parte del collettivo Kesha Niya sotto il ponte di via Tenda, anche se il comune sta cercando di ostacolare l’accesso costruendo muretti e reti.

«NON RIESCO A FAR FINTA di niente» racconta Delia, «vedevo per strada bambini che piangevano di caldo, di sete, senza che nessuno facesse nulla. Li ho fatti entrare, ho dato da mangiare gratis se non avevano soldi. Ho messo una sdraio per far riposare le donne incinte. Alcune passano la giornata in piedi perché non hanno un posto dove andare. Ho visto tante persone che si vergognano a chiedere aiuto. La scorsa settimana è entrato un uomo sulla cinquantina, veniva dal Sudan. Non ha detto niente ma ho capito. Gli ho fatto un piatto di pasta, ci ha messo 3 ore a mangiarlo. Poi mi ha detto che non mangiava da 4 giorni».

LA SCELTA DI DELIA, sembrerebbe straordinaria visti i tempi, ma raccontata da lei, appare come l’unica possibile. «Io non ho mai fatto politica» aggiunge «sono una lavoratrice, non ho mai avuto un credo particolare. Faccio solo ciò che sento. Gli altri esercenti, sono loro nel torto, se conoscessero la professione saprebbero che negli esercizi pubblici si devono far entrare tutti. Io poi a volte ci metto del mio e quello che posso lo do. Anche se odio quando c’è qualcuno che se ne approfitta». Tuttavia in questi tre anni i problemi del bar non sono stati creati dai ragazzi che lo frequentano ma soprattutto dai clienti italiani che hanno disertato il posto e dalle istituzioni che l’hanno tormentato con presidi all’esterno e controlli igienico sanitari. «In 40 anni di lavoro non li avevo mai visti tutti questi controlli» dice Delia «mi genera ansia sentirmi presa di mira, insieme alla precarietà economica della mia attività».

DA PIÙ DI UN ANNO collettivi, ong, e persone solidali di Ventimiglia e dintorni hanno scoperto la realtà del bar Hobbit. Da allora organizzano delle inziative di sostegno per il bar. «D’estate riesco ad andare avanti grazie all’aiuto delle persone che vengono a fare aperitivi o mi mandano comitive di volontari, ma d’inverno diventa difficile. La città si svuota e quelli che dovrebbero garantire le entrate sono i ventimigliesi che lavorano nei dintorni». Da loro invece il bar di Delia non ha ricevuto mai sostegno «mi hanno sputato, mi hanno intimato di chiudere, hanno sfasciato per dispetto la serratura di quella porta d’ingresso, è ancora rotta non ho i soldi per aggiustarla».

NEL BAR ENTRA UN RAGAZZO nero, camicia e dossier in mano, saluta Delia calorosamente «lui ha fatto il corso di italiano qui al bar» dice lei con un grande sorriso «adesso lavora per l’Oxfam». «Sono appena tornato da Mentone Garavan ero lì a monitorare» dice lui. Mentone è la prima cittadina francese al confine. La piccola stazione è presidiata da pulmini della polizia francese e tutti i treni che arrivano dall’Italia vengono fermati e perlustrati. Controlli su base razziale avvengono sistematicamente. Il confine è presidiato su due punti, entrambi militarizzati. La frontiera si fa tangibile come in una zona di guerra.

«Ho un piccolo fazzoletto di terra fuori città, aggiunge Delia, potrei far lavorare qualcuno dei ragazzi, mettendoli in regola. Ma purtroppo non è possibile. I vicini non vogliono vedere neri. È una questione cromatica, hanno paura del colore della pelle».

L’ECONOMIA DI VENTIMIGLIA – in realtà – è foraggiata dalla crisi del confine, tra dipendenti delle ong e forze dell’ordine, un nuovo indotto economico è stato portato nella città proprio dalla presenza dei migranti. Eppure molti si lamentano. «Questa situazione difficile mi ha portato anche tante cose belle. Ho conosciuto persone che come me aiutavano gli altri e questo mi ha fatto sentire meno sola. Anche con alcuni ragazzi sono nati rapporti di amicizia, mi hanno ribattezzata mama africa» dice ridendo «uno di loro è diventato un amico di famiglia, lo invitiamo al ristorante con noi, lui si imbarazza per come la gente ci guarda, non sono abituati a vedere un nero al ristorante».

«Mi fanno rabbia certe persone» continua «mandano i figli a studiare all’estero per un futuro migliore e maltrattano gli immigrati. Tutti abbiamo diritto a un futuro migliore. Se i residenti dicessero a questi ragazzi anche solo “buongiorno”. Basterebbe già quello a cambiare le cose».

Mama Africa ha gli occhi lucidi, mentre alcuni attivisti di passaggio al bar avvertono che domani saranno fatti i pullman per Taranto. Vuol dire che la polizia girerà per le strade cercando persone da deportare nell’hotspot pugliese. Per chi è in strada domani non sarà un giorno di pace.

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