Afghano, 17 anni, malato, abbandonato (quasi) da tutti
Stazione di Trieste. Notte. Un ragazzo è accasciato sui gradini di ingresso, una gamba gonfia, occhi semichiusi febbricitanti, si lamenta piano. L’amico si aggira intorno, guarda le poche macchine che passano, uno sguardo che ha paura ma cerca, chissà cosa, trema. Un barbone appoggiato al muro all’angolo dorme incappottato anche se fa già caldo. Spettrale la piazza, gli alberi, il monumento all’imperatrice Sissi transennato seminascosto dall’umidità grigia che sembra addensarsi intorno ai lampioni. Le insegne dei bar oltre la strada ma le saracinesche sono ancora abbassate. Una donna passa in fretta, lontana. La polizia ferroviaria percorre chiacchierando sottovoce il pavimento di marmo dell’atrio. Non c’è anima viva.
H.A. ha 17 anni, è afgano, labbra serrate, dolore, sono le quattro e mezza di giovedì 13 luglio. Nicola è ferroviere, arriva in stazione e sale piano i quattro gradini, il volto girato verso quel ragazzo che sembra un grumo di stracci, capelli neri appiccicati alla fronte, sudore e febbre, due occhi che si aprono scuri per incrociare i suoi.
C’è la Polfer, bene, Nicola chiede se è stata chiamata un’ambulanza. «No» è la risposta. Risposta beffarda e intollerabile: l’amico di H.A. ha chiesto un medico e qui un medico non c’è, provino al centro diurno un chilometro più in là.
Nicola non passa oltre, non fa spallucce, non finge di non avere visto e sentito. Chiama la Croce Rossa e si siede vicino a quel ragazzo con gli occhi lucidi, si siede anche l’amico e restano in silenzio. Aspettano assieme, mezz’ora, finché arrivano le luci blu dell’ambulanza e due giubbotti arancioni aprono lo sportello posteriore. Fermi, guardano, barelle non ce ne sono.
L’amico tira su H.A., stringe i denti, se lo carica sulle spalle magre, tre gradini, il marciapiede, il giro oltre le transenne, l’ambulanza. Nicola guarda a bocca aperta, non riesce a parlare.
In ospedale, reparto asettico, porta chiusa, è la rianimazione. I medici diranno che ancora un’ora e H.A. sarebbe morto: infezione da stafilococco tossigeno. Flebo, punture, conforto. Dopo due giorni H.A. è in condizioni «severe» ancora in rianimazione ma non è più in pericolo di vita. Gli danno un telefono e chiama a casa per dire «sono qui, sono vivo». Grazie Nicola.
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