Alcuni anni fa la sociologa della comunicazione e traduttrice Anna Vanzan, esperta anche di Islam, scrisse, parlando di poetesse afghane rifugiate in Iran, un bellissimo saggio, in cui si legge: «La poesia è stata sempre la più importante forma culturale in Afghanistan, rappresentando un modo per comunicare idee, inclusa la protesta socio-politica. Da tempo immemore l’Afghanistan ha ospitato tenzoni poetiche dove gli artisti potevano competere in eloquenza e cultura improvvisando liriche, composte secondo i canoni estetici e letterari dettati dai maestri della letteratura persiana. Data la struttura fortemente patriarcale della società afgana, non c’è da meravigliarsi che la produzione poetica femminile sia inferiore – quantitativamente – a quella dei loro colleghi, nonostante le donne abbiano cominciato a poetare almeno fin dal X secolo, quando la figlia del governatore di Balkh, Rabi’a, componeva liriche in arabo e in persiano. Divenne famosa, tanto che le sue poesie venivano recitate pubblicamente nei circoli letterari: fu in una di queste occasioni che Rabi’a declamò alcuni versi in cui confessava di amare uno schiavo di suo fratello. Questi, sentendo il nome della sua casata in relazione a quello di un servo, si infuriò a tal punto da ordinare che la sorella venisse condotta nell’hammam e le fossero tagliate le vene. Ma, prima di morire, Rabi’a scrisse, col proprio sangue, alcuni versi sulle pareti del bagno, sia in dedica al suo amato sia come atto d’accusa al fratello assassino». Questa storia ricorda tanto quella di Gohar K., innamorata, sin da adolescente, di Aman, la giovane figlia dei domestici di famiglia. Gohar e Aman, con pochi anni a divederle, ma entrambe straordinariamente belle, sono sempre state legate da un affetto profondo e segreto; un affetto non ostacolato, proprio perché sconosciuto alle loro famiglie, con condizioni sociali ed economiche molto diverse. La storia di Gohar si complica proprio con il ritorno dei talebani nell’agosto del 2021. Abbiamo raccolto la sua testimonianza, come un ulteriore segmento da unire a tutte quelle tremende storie di violenza che le donne, da un certo momento in poi, hanno subito in Afghanistan. Qui di seguito il suo racconto.

Che cosa accadde da quel 15 agosto in poi nella sua vita?
Quando gli americani hanno abbandonato in fretta, e quasi di nascosto, Kabul, in città è tornato il regime di sospetto e terrore, che già i nostri genitori avevano conosciuto. Tutto il mondo l’ha raccontato. Questo non vuol dire certo che tutto il mondo l’ha compreso. Dal raccontare al comprendere davvero che cosa abbiamo vissuto e sentito nel nostro animo, c’è di mezzo un oceano intero, quasi galassie direi. Occorreva tenere gli occhi aperti perfino coi vicini di casa, per evitare che riferissero al regine talebano atteggiamenti femminili “compromettenti” (compromettenti secondo i loro parametri violenti e patriarcali del nuovo potere instauratori). Le donne avevano iniziato a sentire come impossibile e asfittica quella vita che si stava preparando a diventare la quotidianità. Una donna poetessa –  come sono io – che ama un’altra donna era da mettere a margine già negli anni precedenti, ma, dopo quel famigerato 2021, la condizione diventava pericolosa, anzi illegale. Era la legge a decidere per i miei sentimenti. Questo è accaduto a me e ad Aman. Qualcuno ha visto del bene tra noi, dalle fessure, dagli angoli, e ha avvertito mio fratello e mio padre. Non siamo state semplicemente separate…Le nostre storie si sono completamente divise. La mia ricca famiglia mi ha mandata in viaggio studio a Londra (dove ora risiedo); la mia amata compagna, con pochissime risorse economiche, è rimasta lì, dopo aver espiato quella che, secondo i talebani, è una colpa tremenda. I miei versi, da quel momento in poi, sono sempre per Aman e per tutte quelle donne violentate. Due uomini del regime gridavano che le avrebbero “insegnato a esser donna”. Le avrebbero indicato “la via per essere una vera donna”.

La «via per esser donna» era quello dello stupro?
Sì, ma dello stupro di gruppo, a cui spesso sono avvezzi i talebani. Non ho visto nulla, ho solo sentito dei racconti, perché avevo già raggiunto Londra, per iniziare una comoda e confortevole vita universitaria. Eppure, ogni giorno che il cielo manda in Terra, ho pensato a quella barbarie sul corpo della piccola Aman, ai suoi diciassette anni, alla sua impreparazione a tutto. Se fosse successo a me, avrei sofferto meno… E non solo per via dei miei venticinque anni! Ho una diversa durezza, ho conosciuto gli uomini delle nostre parti e ho già addentato la loro crudeltà. Aman non ha conosciuto niente, se non qualche casto bacio e tanta poesia.

La vostra storia è difficile da raccontare a parole, perché mette insieme tanti aspetti tremendi: la storia che si è incagliata nelle vie di Kabul, l’azzeramento dei diritti sulle donne, la violenza sugli omosessuali, l’incomprensione dell’attività poetica al femminile, l’imposizione dell’ignoranza. Il vostro dolore ci riguarda tutte. Vengono così in mente i versi di un poeta afghano, residente in Italia, Basir Ahang «Da Kabul a Roma/ da Tamerlano a Giulio Cesare/ passando per terre che trasudano de Gobineau/ Questo momento mi appartiene». Le vostre storie si intrecciano alle nostre vite e ci appartengono.
Lei è davvero sicura di questo? Il dramma delle afghane è un articolo giornalistico ogni mese, per l’Occidente; per noi è un racconto di torture, separazioni, mutilazioni, ignoranza. Non saremo mai sullo stesso piano. Le nostre storie non si intrecceranno mai. La mia vita sentimentale non apparterrà mai alla cultura inglese o europea; purtroppo, però, non apparterrà più neanche alla cultura afghana. Negli anni ’50 queste cose sono già, in parte, accadute, ma le femministe del nostro popolo potevano almeno manifestare il dissenso. Oggi non c’è dissenso in Afghanistan. Persino le donne iraniane possono più di noi! (Ovviamente correndo numerosi rischi). Noi non possiamo neanche correre il rischio. Oggi a Kabul non potrà mai esserci un’altra Meena Keshwar Kamal: sarebbe subito minacciata o condannata a morte. Meena, invece, negli anni ’70, cioè prima che le donne afghane ottenessero la libertà di mostrarsi senza velo in pubblico, aveva protestato pubblicamente contro il cosiddetto “governo fantoccio russo”. Era una femminista e attivista per i diritti delle donne. Ora la situazione è ancor più grave: il mondo guarda solo alla Russia e all’Ucraina; la Cina pensa a come avvantaggiare i propri affari in concorrenza con gli Usa; l’Iran e il Cremlino stesso – pur senza una reale simpatia – si guardano bene dall’ostacolare il regime talebano. È  come se tutto il mondo abbia, in un certo senso, riconosciuto che l’autoritarismo e la violenza talebana siano il destino naturale di Kabul e di tutto l’intero Paese. I talebani, per quasi tutto il mondo, sono stati “normalizzati”: non sono, invece, un fenomeno da baraccone con barbe lunghe. Sono ignoranti e crudeli e tanto più ignoranti e tanto più creduli. La poesia stesso è un atto sovversivo.

E lei come vede la situazione da Londra?
La mia poesia è rinchiusa nel mio dolore e nella mia nostalgia. Io non vedo Londra e non vedo Kabul, non sento nel mio animo né l’Oriente né l’Occidente. Conosco solo la religione dei miei versi, che mi tengono in vita e consolano la mia situazione. Non posso tornare nel mio Paese, ma non ho alcuna curiosità di vedere l’Europa né, pur potendomi permettere economicamente dei viaggi, ho voglia di andare negli Stati Uniti. Dal tradimento americano e dall’ignavia di tutto l’Occidente dipende la violenza sulla mia piccola Aman, la fine del nostro amore, la nausea delle nostre vite. Non possono aiutarmi a dimenticare, non voglio dimenticare e la mia cultura non conosce né la misericordia né il perdono. Io sono figlia dei landay, dei piccoli componimenti poetici segnati dall’ardore della resistenza all’oppressione. La mia è una poetica della resistenza; se qualcuno mi parla di perdono non fa altro che accrescere, in me, l’ansia della vendetta. Non posso non sentire il dolore delle donne; non posso mettere da parte quello che Aman ha subito sul proprio corpo, alla sua età.

Versi

Il sole non sorge a Kabul

e non ci sono strade dei sogni verso Herat;

il sole non sorge a Kabul da quando

il fratello uccide la sorella

da quando la sorella mente alla madre

da quando la madre è complice e muta

della violenza barbuta.

L’autostrada per Teheran ha conosciuto

il nostro dolore, la ferita dei tuoi anni,

l’oltraggio della tua carne: non c’è padre madre o dio

da quel momento

ma solo le urla del maiale sanguinante

o farfalle fracassate sulla polvere

con pietre appuntite.

Prova ad amare ancora,

Aman, scorda i miei occhi e avrai salva la vita.

Provo ad amare ancora,

scordo i tuoi occhi, e provo a salvare il mio futuro.

Ma non c’è destino oltre i nostri nomi,

non c’è radice oltre il tuo e il mio nome insieme.

Non vedo Londra e non vedi Kabul:

siamo come morte che camminano.

Se il bacio è un peccato

Cos’è mai la lapidazione per voi?

Se il mio bene unito a un altro bene

Non vi procura gioia,

cos’è mai lo stupro per voi?

Se una mano in un’altra è scandalo

Cos’è mai l’ignoranza per voi?