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Afghanistan: chi protegge i civili?

Afghanistan: chi protegge i civili?Bambini afghani in un parco giochi a Kabul – Reuters

Afghanistan Dopo l’attacco a Save the Children a Jalalabad, costato la vita a 6 persone, secondo il report dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction in 5.753 casi gli Usa avrebbero coperto abusi sessuali sui bambini da parte dei partner afghani

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 26 gennaio 2018

L’attacco di sabato scorso all’hotel Intercontinental di Kabul e quello di mercoledì alla sede di Jalalabad di Save the Children hanno riportato l’Afghanistan sotto i riflettori.
Alla rete Haqqani, la componente più intransigente della galassia talebana, i duri e puri che negano ogni compromesso a colpi di attentati sanguinari, è stata attribuita la responsabilità del primo attacco: 43 morti, sebbene le fonti governative forniscano un bilancio meno drammatico.

LA «PROVINCIA DEL KHORASAN», la filiale locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, ha invece rivendicato l’assedio di Jalalabad, costato la vita a 6 persone: 4 operatori dell’organizzazione umanitaria Save the Children, un membro delle forze di sicurezza afghane e un passante.

Entrambi gli attentati sono stati fortemente condannati da tutte le cancellerie occidentali, che hanno ricordato un principio elementare del diritto internazionale, troppo spesso negato nei conflitti: i civili non possono essere bersagli legittimi. Chi li colpisce deliberatamente, compie un crimine di guerra. I civili vanno protetti, ci viene ricordato.

IN AFGHANISTAN, però, chi invoca il rispetto dei diritti spesso li nega a sua volta. O non fa nulla per impedire che siano negati. Prendiamo il caso dei bambini. Alcuni giorni fa lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar), un ente governativo americano che fa le pulci alla presenza Usa nel Paese centroasiatico, riferendone al Congresso, ha reso pubblico l’ultimo rapporto.

È dedicato agli abusi sessuali compiuti dai membri delle forze di sicurezza afghane sui bambini e sugli adolescenti.

[do action=”citazione”]Una legge – la Leahy Law, proposta nel 1997 dal senatore del Vermont Patrick Leahy e in vigore dal 2008 – prevede che il Dipartimento della Difesa e quello di Stato interrompano qualsiasi forma di sostegno finanziario ai partner militari stranieri coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani.[/do]

BASTA CHE CI SIANO «credibili informazioni» su una violazione da parte di un solo membro di una certa unità militare e il flusso di denaro destinato a quell’unità si deve interrompere, ha spiegato l’avvocatessa Erica Gaston con un’analisi dettagliata sul sito dell’Afghanistan Analysts Network. Nel caso afghano, le violazioni sono gravissime, ma i soldi continuano ad arrivare.

Secondo il rapporto Sigar, che inizialmente avrebbe dovuto essere reso pubblico solo nel 2042, dal 2010 al 2016 in 5.753 occasioni i vertici militari Usa hanno ricevuto notizie di gravi abusi dei diritti umani, inclusi abusi sessuali sui bambini, da parte dei partner afghani. Ma non è bastato ad applicare la Leahy Law.

IL DIPARTIMENTO DELLA DIFESA ha preferito appellarsi a una clausola legale per continuare a finanziare le forze di sicurezza afghane. Di fronte alle numerose denunce, è stato fatto il meno possibile (e il New York Times aggiunge che alcuni militari americani che hanno denunciato e combattuto gli stupri sono stati allontanati dall’esercito). Gli abusi sono continuati.

Tra i comandanti afghani è infatti piuttosto diffuso il bacha bazi, la pratica di abusare sessualmente di bambini e ragazzi tra i 10 e i 18 anni. Sottratti alle loro famiglie, sequestrati per strada, nelle zone rurali, nelle province più periferiche o nelle città principali, vengono usati come oggetti sessuali (bacha bazi significa «gioco con i bambini», o «bambini per gioco»). Tenuti in schiavitù, legati ai letti o rinchiusi nelle caserme, a volte costretti a indossare abiti femminili, lavorano per i comandanti e sono vittime di stupri. I vertici militari statunitensi avrebbero potuto arginare gli abusi. Hanno preferito girarsi dall’altra parte.

[do action=”citazione”]Lo stesso fanno molti governi europei: condannano i sanguinosi attentati in Afghanistan, invocano il rispetto del diritto internazionale, ma poi non esitano a rimpatriare nel loro paese di origine gli afghani la cui richiesta d’asilo non venga riconosciuta valida.[/do]

UNA PRATICA IN VIGORE da tempo. Avallata dall’accordo tra l’Unione europea e il governo di Kabul firmato alla vigilia del vertice internazionale che si è tenuto il 4 e 5 ottobre 2016 a Bruxelles. Soldi per la ricostruzione in cambio di rimpatri, anche forzati.

Il risultato? Drammatico, secondo il rapporto Escaping War. What to Next?, reso pubblico il 24 gennaio e promosso dal Norwegian Refugee Council. Secondo la ricerca condotta dal think tank Samuel Hall, su 10 rifugiati che tornano in Afghanistan dopo aver vissuto all’estero, almeno 7 sono poi costretti ad abbandonare di nuovo la propria casa, a causa del conflitto. Nel 2017 le Nazioni unite sono tornate a classificare quello afghano da caso di «post-conflitto» a «conflitto attivo», ma le percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato continuano a diminuire per i migranti afghani.

I RIMPATRI si fanno sempre più frequenti. Dai paesi vicini, Iran e Pakistan in primo luogo, dove vivono circa 3 milioni di afghani. E dai paesi dell’Ue. Federica Mogherini, l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera, si è affrettata a condannare l’attentato di Jalalabad, ma continua a sostenere l’accordo capestro con Kabul.

Un accordo che mette a rischio di vita i rimpatriati. Rispediti in un paese insicuro. Lo dimostrano i recenti attentati, quelli lontani dai radar dei media internazionali, e i dati del rapporto Escaping War. What to Next? Nel 2017, ogni giorno una media di 1.200 afghani sono stati costretti ad abbandonare la propria casa, per una vita da sfollati interni.

SCHEDA: Il governatore silurato è ancora al suo posto

Il caso è diventato così clamoroso da far intervenire perfino la Casa bianca, che ieri con un comunicato stampa ha sollecitato le parti a trovare una soluzione nel più breve tempo possibile. In ballo, c’è la tenuta del già fragile governo di unità nazionale che ha sede a Kabul, ma la cui sovranità è limitata.

A contenderla non ci sono soltanto i movimenti anti-governativi, che secondo le stime più prudenti controllano il 40% del territorio, ma gli stessi rappresentanti del governo. Come Atta Mohammad Noor, per anni governatore della provincia di Balkh, al confine con l’Uzbekistan, silurato dal presidente Ghani.

L’ex governatore non ha però intenzione di andarsene, né di lasciare la sede al suo successore, già nominato. Il braccio di ferro va avanti da settimane. Per Atta Mohammad Noor, se cade lui, deve cadere tutto il governo. Un governo ideato dal segretario di Stato Usa John Kerry nell’estate 2014, quando i due contendenti alla presidenza, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, si accusavano reciprocamente di brogli. Per evitare rotture ulteriori, li ha costretti a un governo bicefalo. Paralizzato dal loro antagonismo. E incapace perfino di far insediare un nuovo governatore.

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