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Afghanistan, affluenza bassa. 2mila seggi «chiusi» dai talebani

Afghanistan, affluenza bassa. 2mila seggi «chiusi» dai talebaniUn seggio elettorale nella provincia Parwan – Afp

Presidenziali I primi risultati arriveranno il 19 ottobre, quelli definitivi il 7 novembre

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 29 settembre 2019

Hanno avuto tempo fino alle 17 ora locale, due ore in più rispetto al previsto, gli elettori che ieri si sono recati alle urne per scegliere il presidente della Repubblica islamica d’Afghanistan.

Il voto si è svolto in un clima di forte tensione ma di relativa tranquillità, almeno rispetto ai timori della vigilia.

I Talebani avevano infatti minacciato di colpire duro, ma hanno adottato un «basso profilo», con – secondo Afghanistan Analists Network – circa 400 attentati capillari di minore entità, sabotando almeno in parte le telecomunicazioni, i collegamenti stradali ed essendo già riusciti a evitare l’apertura di 2mila dei circa 7mila centri elettorali.

Sono almeno 5 i morti e diverse decine i feriti mentre le forze di sicurezza avrebbero sventato diversi attentati e dunque che portano a casa un innegabile successo simbolico. Dalle liste parziali o mancanti degli elettori al malfunzionamento dei dispositivi di identificazione biometrica, non sono mancati i problemi nelle operazioni di voto, svolte però con maggiore professionalità che in passato.

I Talebani rivendicano la vittoria: per loro, le elezioni non sono che una truffa imposta dagli Usa, il principale alleato del governo di Kabul.

Mentre per il presidente uscente e alla ricerca di un secondo mandato, Ashraf Ghani, e per il suo principale avversario, il primo ministro Abdullah Abdullah, si è trattato di un successo. Per capire se lo sia davvero, occorre aspettare i dati dell’affluenza.

Dalle prime indicazioni sembra molto più bassa rispetto al passato: meno di 2 milioni su 9 e mezzo secondo la Commissione elettorale Iec.

La legittimità del prossimo governo dipenderà dunque dal grado di partecipazione e dalla rappresentatività di un voto che si è svolto perlopiù nei centri urbani, molto meno nelle aree rurali controllate dagli studenti coranici.

E molto dipenderà dalla trasparenza nel conteggio dei voti. I primi risultati dovrebbero essere resi noti il 19 ottobre, quelli definitivi il 7 novembre. Ma nel caso delle parlamentari dell’ottobre scorso, ci sono voluti ben sei mesi.

Sei mesi nei quali non si è mai smesso di parlare di brogli, l’altra grande incognita di queste presidenziali: qualche candidato ha già cominciato a lanciare accuse.

Sul fronte dei padrini internazionali, se si esclude un breve messaggio di Pompeo sulla necessità di trasparenza, la linea è per adesso quella del silenzio, in attesa di capire cosa succederà (e sempre che Trump non decida di dire la sua rendendo il quadro ancor più confuso). Prudenza dunque, forse anche per senso di responsabilità almeno nelle cancellerie europee che comunque, con l’eccezione dei tedeschi, mantengono ormai un bassissimo profilo anche perché continuamente spiazzate dagli americani, dominus incontrastato della scena.

Nel 2014 furono gli Usa del resto a sbrogliare la matassa del dopo voto, incagliatosi nella polarizzazione tra Ghani e Abdullah che si accusarono a vicenda di brogli, manomissioni, indebite pressioni.

Ma è anche vero che questa volta ci sono stati meno casi eclatanti che nel 2014 quando era pane quotidiano il ritrovamento di casse di schede elettorali pronte per essere «pre marcate». Il futuro è incerto, forse più del solito.

Non dipende solo da chi guadagnerà più voti, dalla trasparenza della Iec o dagli inevitabili reclami. Il futuro è incerto perché, dopo le secche in cui il negoziato americano-talebano si è arenato, il rischio che l’Afghanistan torni a essere terra di appetiti esterni è sempre in agguato.

Questo Paese strategico, se non ha un governo forte e stabile, è come un passero circondato da abili e felpati felini.

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