Afghanistan addio. E l’Italia non ha scuse
La storia si ripete Dal ritiro dell'Armata rossa a quello delle forze occidentali, che procede in questi giorni tra mielosi ammainabandiera, zero autocritica e nessuna richiesta di perdono alla popolazione locale per gli ultimi 20 inutili anni di guerra, l’ex ambasciatore a Kabul racconta le fasi e le responsabilità che possono spiegare anche il prossimo bagno di sangue
La storia si ripete Dal ritiro dell'Armata rossa a quello delle forze occidentali, che procede in questi giorni tra mielosi ammainabandiera, zero autocritica e nessuna richiesta di perdono alla popolazione locale per gli ultimi 20 inutili anni di guerra, l’ex ambasciatore a Kabul racconta le fasi e le responsabilità che possono spiegare anche il prossimo bagno di sangue
Sono arrivato all’ambasciata a Kabul ai primi di settembre del 1987. Il blocco occidentale non riconosceva il governo fantoccio messo su dall’invasore sovietico a partire dal 1979, e a me erano state assegnate funzioni di Incaricato d’Affari a.i..
Da parte occidentale si seguiva con grande interesse il tentativo di Gorbaciov di trasformare l’Urss, sia in politica interna che in politica estera. Per quanto riguardava quest’ultima, gli si chiedeva il ritiro dell’Armata rossa dall’Afghanistan come prova fattuale della reale capacità di arrivare a quella distensione, che a parole auspicava.
A LUGLIO DELLO STESSO ANNO Gorbaciov aveva dichiarato, ricevendo una delegazione ufficiale del Pci, che in Italia c’era una persona che avrebbe potuto dimostrarsi di fondamentale importanza per la pacificazione dell’Afghanistan. Era chiaro il riferimento a Zahir Shah, il re deposto dell’Afghanistan, che viveva in esilio a Roma. La cosa non era certo sfuggita all’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti, che, vecchio habitué dei salotti internazionali e grande amico del Pci, non nascondeva la speranza che l’Italia potesse giocare un ruolo nel superamento della crisi afghana.
Alla Farnesina si fantasticava del ritorno a Kabul – con volo Alitalia – del vecchio sovrano, l’unico in grado di convocare una Loya Girga, o assemblea di tutte le fazioni afghane, per traghettare il Paese verso un sistema più o meno democratico, dopo il ritiro dell’Urss.
Sia detto per inciso che il popolo afghano era – e presumibilmente è tuttora – prevalentemente sunnita moderato, con l’eccezione di una minoranza sciita, moderata anch’essa, soprattutto nella zona di confine coll’Iran.
Subito dopo l’invasione sovietica nel ’79, la resistenza afghana era stata organizzata da parte degli Usa, che la finanziavano, armavano e addestravano insieme a Pakistan e Arabia Saudita. La svolta sarebbe arrivata con la dotazione ai Mujaheedin del missile terra-aria Stinger, che era facilmente trasportabile, aveva una gittata di 5mila metri e aveva reso del tutto impraticabili le operazioni antiguerriglia condotte dai corpi speciali dall’Armata rossa a mezzo di elicotteri.
I GRUPPI ARMATI ERANO 7, tra cui il più fanatico era quello finanziato dall’Arabia Saudita, che non faceva prigionieri: li decapitava sul posto. Vi faceva il suo apprendistato bellico un giovane e brillante Bin Laden. Gli europei facevano peraltro affidamento su Massoud, il Leone del Panshir, che pur essendo a sua volta un signore della guerra e quindi operando colle stesse regole degli altri gruppi armati, aveva studiato alla scuola francese di Kabul e sembrava meno fondamentalista degli altri.
I Mujahiddeen erano ormai appostati nelle montagne tutto intorno a Kabul e ogni tanto sparavano colpi di mortaio contro postazioni sovietiche cui immancabilmente si rispondeva con i temibili Scud al cui boato si accompagnava l’improvviso, convulso ondeggiare del pavimento della nostra ambasciata.
Il 30 settembre 1987, Najib veniva nominato presidente dell’Afghanistan. Uno dei suoi primi passi fu modificare il nome in Najibullah, in chiaro segno di superamento dell’ateismo fino a quel momento sbandierato dal governo pro-sovietico. Famoso per la sua brutalità, temuto ed odiatissimo, era stato fino ad allora Capo della Polizia afghana. La sua nuova – e impossibile – missione consisteva nell’arrivare a una riconciliazione nazionale che permettesse una transizione non violenta a un regime di stampo democratico.
Avevo avuto modo di incontrarlo in occasione di una visita del segretario generale della Farnesina a Kabul. Malgrado il dispiegamento di forze intorno alla sua persona, eravamo evidentemente di fronte al vertice di una struttura di potere in procinto di sciogliersi come neve al sole, di a un uomo colla corda al collo. Nel corso del colloquio sostenne che non era nell’interesse del mondo occidentale che i fondamentalisti si impadronissero del Paese, dato che ne avrebbero fatto il centro di un espansionismo politico religioso difficilmente controllabile. Fece anche un accenno alla speranza riposta dal popolo afghano nel rientro di Zahir Shah come Presidente, con l’incarico di presiedere alla Loya Girga per la riconciliazione nazionale, dichiarandosi disposto a farsi da parte nell’interesse nazionale. Magari fosse stato ascoltato!
A FINE DICEMBRE 1988 Gorbaciov annunciava ufficialmente il ritiro dell’Armata Rossa, il che voleva dire abbandonare alla propria sorte il Governo di Kabul, che difficilmente sarebbe potuto sopravvivere senza una chiara volontà politica in tal senso da parte occidentale.
L’Italia e parte almeno dei partner comunitari avrebbeo voluto lasciare aperte le ambasciate a Kabul, come segno di fiducia nel processo di transizione, ma da parte Usa si mirava al cosiddetto Vietnam sovietico, vale a dire a una fuga disordinata dell’Armata rossa – che venne lasciata partire senza danno alcuno – e l’immediato crollo del governo fantoccio.
Dopo non pochi tentennamenti, ci si allineò sulla posizione americana e si decise di chiudere le ambasciate adducendo motivi di sicurezza, con l’intento di creare una situazione di panico collettivo, che avrebbe facilitato il crollo di quel governo.
DOVEMMO CHIUDERE l’ambasciata tra il 28 e il 31 gennaio 1989. Andarlo a comunicare al ministero degli Esteri afghano è stata una delle esperienze più tristi della mia vita. Un’ambasciata è infatti un ponte tra due popoli e due governi e chiuderla e come abbandonare una nave. Tra l’altro, le ambasciate occidentali erano rimaste a Kabul, sia pure non nel pieno dei rapporti diplomatici bilaterali, in segno di solidarietà col popolo afghano invaso dai sovietici. E quando finalmente i sovietici si ritiravano, noi chiudevamo!
ALLA SEDE CENTRALE della Ariana Afghan Airlines, l’unica che facesse ancora servizio tra Kabul e Nuova Delhi, non c’erano più posti disponibili. «Tutti scappano – mi disse l’impiegato -. Se anche le ambasciate chiudono, non resterà nessuno a far da testimone di quanto accadrà in città. Io ho 7 figli e non posso andarmene», finì con le lacrime agli occhi. Dovetti andare dal direttore generale e mentre aspettavo di venir ricevuto, vidi la fila di impiegate che venivano a salutare perché lasciavano il lavoro.
La mattina dopo all’aeroporto era il si salvi chi può, colla folla che assediava gli sportelli. La destabilizzazione, perseguita da parte americana e occidentale, funzionava come un congegno di precisione. Lasciavo una Kabul in preda al terrore.
ARRIVATO A ROMA, mi recai dal segretario senerale della Farnesina, cui comunicai la mia convinzione che il governo sarebbe presto crollato, richiamando quanto profetizzato da Najib, vale a dire che non era nell’interesse occidentale che l’Afghanistan cadesse in preda ai fondamentalisti. Mi venne risposto che risultava che il governo afghano godesse di ottima salute e mantenesse la presa sul territorio. Analoga risposta, sorprendentemente, ricevetti dall’allora ministro degli Esteri del governo ombra del Pci, on. Giorgio Napolitano, che mi spiegò con pazienza che la guerra civile era ormai finita e il governo afghano restava saldamente in sella.
Il resto è noto. Dopo due anni i gruppi Mujahideen entrano a Kabul senza tuttavia riuscire ad impossessarsene. Ogni volta che uno di essi arriva al centro, gli altri 6 gli si coalizzano contro. Accade che un ministero spari contro l’altro. Najib può rifugiarsi nella rappresentanza delle Nazioni unite e continuare a lavorare per la sua mission impossible della riconciliazione nazionale.
CI PENSA L’INGORDIGIA del mondo occidentale a porre rimedio al vuoto politico scientemente creato a Kabul. Con grande orchestrazione mediatica internazionale, entrano in scena i Talebani, minoranza fino a quel momento conosciuta per il fondamentalismo religioso e l’arretratezza dei costumi.
Valga a titolo di esempio quanto segue: usi a camminare scalzi, si vantavano del numero di chiodi che riuscivano a piantarsi nel callo sotto i piedi: quanti più chiodi, più macho. Radicalmente omofobi, consideravano la donna buona soltanto per la riproduzione e i giovanetti preferibili per il piacere. I loro notabili si mostravano spesso in pubblico (difficile che non continuino a farlo) con un ragazzo rapito o comprato alla famiglia, la cui sorte nel diventare adulto era segnata: respinti dalla famiglia, emarginati dalla società erano (probabilmente lo sono ancora) condannati alla prostituzione o a morire d’inedia.
Quanto sopra per dire che era materialmente impossibile che nel giro di pochi mesi da tale stato di arretratezza culturale i talebani fossero arrivati a pilotare gli aerei e a guidare i carriarmati con cui si espandevano a macchia d’olio, fino a impadronirsi del Paese. Più probabile che fossero i Pasthun dell’Isi (Inter-Services Intelligence) pakistano a provvedere alla bisogna, con accordo Usa e finanziamento saudita.
IL VERO BAGNO DI SANGUE iniziò a quel punto e ne divenne emblematica la tragica uccisione di Najib, prelevato dalla sede delle Nazioni Unite contro il diritto internazionale, straziato e linciato pubblicamente, non tanto, si badi bene, per il suo passato prosovietico, quanto per la credibilità di moderato mediatore politico che aveva saputo costruirsi. E in Italia, ci fu chi pensò al riconoscimento del nuovo regime!
Oggi, la storia si ripete con Usa e mondo occidentale, Italia compresa, nella parte che fu degli invasori sovietici, un governo fantoccio che ancora una volta si scioglierà come neve al sole, una nuova resa dei conti e un nuovo bagno di sangue, a meno che i talebani, con 20 anni di guerra sulle spalle, non abbiano imparato quella particolare regola del gioco, per cui ci si esprime pubblicamente da fondamentalisti e sottobanco ci si prodiga in nome del business.
A pagare il prezzo, ancora una volta sarà il popolo afghano, le donne costrette, se vogliono sperare di sopravvivere, a tornare a chiudersi nel pregiudizio, i bambini che potranno imparare solo l’uso delle armi e il Corano.
È DA SPERARE CHE L’OCCIDENTE – che dopo vent’anni e chissà quante migliaia di morti, si ritira quasi fosse una vittoria, gonfiando il petto con mielosi ammainabandiera – possa almeno non chiudere la porta in faccia ai disperati che noi stessi abbiamo costretto alla fuga per la vita.
Per quanto riguarda l’Italia, non sarebbe poi male fare autocritica per aver violato l’art. 11 della Costituzione e chiedere perdono all’incolpevole popolo afghano per aver partecipato ai disastri di un’inutile invasione.
L’autore: un giusto a Buenos Aires
Enrico Calamai (Roma, 1945), diplomatico italiano nominato ambasciatore a Kabul nel 1987, è noto soprattutto per aver salvato la vita, da vice-console in Argentina negli anni 70, a oltre 300 perseguitati dalla dittatura militare. Da allora è celebre anche come «lo Schindler di Buenos Aires»
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