La Società Psicoanalitica Italiana (Spi), la principale associazione che riunisce gli psicoanalisti italiani, nei giorni scorsi ha lanciato un allarme sull’uso dei farmaci utilizzati negli adolescenti con una diagnosi di «disforia di genere». Si tratta di ragazze e ragazzi con un’identità diversa dal sesso assegnato alla nascita che con i «bloccanti ipotalamici» arrestano la pubertà. Questi farmaci sono stati sviluppati per curare i tumori della prostata e della mammella e la pubertà precoce nei bambini. Ma dal 2018 sono autorizzati anche per i casi di disforia di genere nei minori in base al parere della comunità scientifica internazionale su efficacia e sicurezza, senza tuttavia dati definitivi raccolti con sperimentazioni su larga scala. Il loro utilizzo è il primo passo del percorso di transizione sessuale.

POCHI GIORNI FA, Sarantis Thanopulos, presidente della Spi e collaboratore del manifesto, ha inviato una lettera al governo per esprimere «grande preoccupazione» sull’impiego di questi farmaci, ritenuti inappropriati in un’età così precoce. La diagnosi di disforia, è il timore espresso a nome della società, «è basata sulle affermazioni dei soggetti interessati e non può essere oggetto di un’attenta valutazione finché lo sviluppo dell’identità sessuale è ancora in corso». E aggiunge che «solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione nell’adolescenza, dopo la pubertà». Inoltre, l’interruzione dello sviluppo psico-sessuale di un adolescente impedirebbe la stessa definizione dell’identità di genere, negando dunque la premessa stessa della procedura farmaceutica. «È una contraddizione di cui si preferisce non parlare», spiega Thanopulos. «Il Karolinska Institut di Stoccolma, non un’istituzione scientifica qualsiasi, ha fermato il trattamento affermando che ha danneggiato i ragazzi. In tutta l’Europa gli Stati riconsiderano la loro posizione».

In realtà, la citata Svezia non ha arrestato del tutto i trattamenti, ma li ha limitati ai «classici casi di insorgenza infantile di identità trasversale al sesso e di disagio, che persiste e causa di una chiara sofferenza durante l’adolescenza».

ALLA PUBBLICAZIONE della lettera, oltre alle associazioni Lgbtq anche la comunità scientifica ha reagito con durezza. Ben sette società scientifiche attive nel campo della neuropsichiatria, dell’endocrinologia e della pediatria hanno espresso «sconcerto» in una replica aperta alla lettera di Thanopulos. Le società hanno ricordato il parere favorevole del solitamente prudentissimo Comitato Nazionale di Bioetica. Inoltre, spiegano i medici, «i bloccanti ipotalamici sono prescrivibili solo a pubertà già avviata» quando l’identità di genere sarebbe ormai stabilizzata. D’altro canto il loro uso mira «a guadagnare tempo proprio per riflettere in modo più consapevole, reversibile e scevro dalle difficoltà legate all’avanzare della maturazione sessuale». Spesso, raccontano, servono a rimandare una decisione definitiva sulla transizione.

I MEDICI SPIEGANO che rischi e benefici di questi farmaci vanno confrontati anche con quelli del loro mancato uso. «È importante – scrivono – sottolineare come gli studi di follow up a oggi dimostrano che il trattamento con i bloccanti ipotalamici è in grado di ridurre in modo significativo i problemi comportamentali ed emotivi e il rischio suicidario» che caratterizzano gli adolescenti con disforia di genere – affermazione che Thanopulos contesta.

Più in generale, le società scientifiche rassicurano che l’uso di questi farmaci è «riservato a casi attentamente selezionati, a seguito di una valutazione multidisciplinare e individualizzata» oltre all’autorizzazione dei genitori.

In effetti, il loro impiego in Italia appare assai limitato. Dati ufficiali non ce ne sono: le Regioni avrebbero dovuto comunicare il numero di prescrizioni di queste terapie su base trimestrale ma dei previsti registri non c’è traccia. In loro assenza, qualunque dibattito è destinato alla tipica fumosità italiana. Però le testimonianze raccolte dai pochi centri autorizzati parlano al massimo di qualche decina di trattamenti autorizzati finora in cinque anni. La posizione dell’Italia, in definitiva, appare simile a quella della prudente Svezia.