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Addio all’Eternauta Angelo Panunzi

Addio all’Eternauta Angelo PanunziAngelo ad una manifestazione per la sanità pubblica (con Ivan Cavicchi e a destra, Francesco Arienzo)

Lutto a sinistra Una vita nella nostra storia. Radiato dal Pci a fine 1969, diventa dirigente del Manifesto a Roma e poi della commissione operaia del Pdup e della Cgil a Roma. Diffusore, sottoscrittore, abbonato fino all’ultimo era un lettore critico. Discuteva del Marx dei Grundrisse, amava i film di Antonioni e i fumetti di valore di fantascienza

Pubblicato circa un anno faEdizione del 4 ottobre 2023

In questi giorni se n’è andato, con il sorriso sulle labbra e poco prima, rivolto alla figlia, con le parole: «Non ce la faccio più», Angelo Panunzi. Aveva 85 anni e per me era più di un fratello. È stato il compagno e l’amico che ha accompagnato la mia formazione politica e umana negli anni Sessanta e Settanta. Sorriso di sfida e stanchezza, ecco le due attitudini che ci riguardano ora che, dopo tanto trasumanar e organizzar, siamo arrivati nella stagione impensabile della destra post-fascista al governo.

HO CONOSCIUTO ANGELO a metà degli anni Sessanta quando mi sono avvicinato come tanti giovani al Pci. La sezione Cassia, in una borgata romana, aveva l’originalità di essere composta per larga parte da lavoratori edili e anche da molti giornalisti – de l’Unità e di Paese Sera – del vicino Villaggio dei Cronisti, e negli anni Sessanta arrivarono gli studenti. Insieme al crogiolo di vite, storie, posizioni arrivò inevitabile il conflitto: il mondo e i suoi movimenti ormai entravano dappertutto.

Angelo tra il ’67 e il ’68 diventò il segretario della sezione, dove insieme al tradizionale lavoro, la diffusione e la Festa del giornale di partito, il tesseramento, l’affissione dei manifesti elettorali, nascevano nuovi comitati popolari sulla scuola, con gli edili e i lavoratori della zona di Via di Grottarossa ( in fondo, sulla Flaminia c’era ancora la Fiat), e poi i corsi serali autogestiti con i tanti giovani che a scuola non c’erano mai andati. Esplodeva l’anno degli studenti e stava per deflagrare quello degli operai, l’autunno caldo del ’69. A giugno del ‘69 nacque ancora dentro il Pci la rivista Il Manifesto: fu aria fresca da respirare a pieni polmoni. Cominciammo a leggerla e a diffonderla come arricchimento del lavoro politico di ogni giorno all’ombra di quattro grandi poster: il tesseramento del ’69, Che Guevara, il labbro di Louisville, Cassius Clay-Mohammed Ali e uno enorme contro la guerra americana al piccolo Vietnam – non le contavamo più le proteste davanti all’Ambasciata Usa di Via Veneto. Erano forti i rapporti con Aldo Natoli e con Piero Della Seta, un compagno del quale Angelo aveva grande rispetto: aveva costruito l’originale organizzazione dell’Unione Borgate.

NON BASTÒ, LA SEZIONE venne commissariata, fu indetto un congresso straordinario dalla Federazione romana del Pci – ricordo lo sconcerto di Angelo nel vedere arrivare in sezione tanti che non c’erano mai entrati, tesserati all’improvviso; si votò e molti, tra cui lo stesso segretario Angelo – furono radiati con la “frazione del Manifesto”. Non ci demmo per vinti, tutt’altro, pure nella inconsapevole posizione di chi non sa dove andare, costruimmo un circolo comunista del Manifesto, un collettivo di giovani – ricordo gli studenti di medicina della non lontana Università della Cattolica – , impegnato con gli edili e contro la guerra, e una delle sedi, anche conviviale, era la casa di Angelo. Angelo e la moglie Nadia sono stati per molti anni la mia famiglia allargata.

FU UNA STAGIONE di riunioni, di volantini tirati con un ciclostile a mano che arredava la mia stanza a casa dei miei, di viaggi e conoscenza del mondo dei nuovi comunisti eretici. Leggevamo collettivamente la rivista scoprendo il Marx inedito dei Grundrisse, ma anche romanzi e poesie. In una di queste letture a casa di Angelo suonò alla porta un giovane prete con due chierichetti per la benedizione pasquale: chiese se poteva benedire, rispondemmo di no, ma lui visti gli argomenti che stavamo leggendo chiese di poter partecipare, era un prete-compagno. Ora diffondevamo il quotidiano il manifesto in edicola dal 28 aprile 1971. Se all’Università capitava che i fascisti facessero mangiare le quattro pagine a chi lo diffondeva, bussare alle stesse porte dove avevamo diffuso l’Unità e sentirsi rispondere «traditori», era quasi peggio.

QUANDO HO CONOSCIUTO Angelo era operaio di una torrefazione, ma era stato emigrante in Germania e poi falegname. Ora era diventato netturbino della città eterna – c’erano altri cinque netturbini nel Manifesto di Roma che scherzosamente chiamavamo «soviet monnezza», eppure lì già discutevano del valore dei rifiuti, di municipalizzate che non dovevano essere carrozzoni di partito, contro le privatizzazioni, di riciclo, di discariche in mano ai privati, di ecologia, argomenti che faticavano a trovare ascolto, nonostante che il giornale parlasse di ambiente, di limite dello sviluppo e venisse per questo sfottuto (Lotta Continua titolò contro il manifesto che parlava di ambiente «Com’era verde la mia valle»). All’inizio degli anni Settanta Angelo diventò uno dei segretari della forte e numerosa organizzazione del Manifesto a Roma, poi entrò nella commissione operaia nazionale del Pdup e si occupò negli anni Ottanta e Novanta di sindacato diventando segretario della Cgil a Roma per la sua categoria.

In tutti questi anni è stato il primo lettore di quello che ho scritto e lo ringrazio per tutte le critiche e i consigli che mi ha dato fino agli ultimi giorni, lui che aveva da poco rinnovato l’abbonamento al manifesto. Pacato e sereno a modo suo, sapeva essere accogliente, pur conservando una sorta di rancore e durezza da orso quando si sentiva assediato o incapace a trovare risposte.

ERA COLTO ANGELO, leggeva in modo avido le novità editoriali, così del resto era un operaio del Manifesto. Amava i film di Antonioni, discutevamo di “valore d’uso” e del Frammento sulle macchine di Marx, delle Lezioni sul fascismo di Togliatti, dell’Accumulazione di Rosa Luxemburg, ma anche del libro che più gli ho invidiato, la bella raccolta di fumetti di fantascienza dell’Eternauta. Ecco, se n’è andato l’Eternatuta ho pensato. Alla fine sedato, ci ha lasciato dolcemente. Seguito fino all’ultimo dai servizi della sanità pubblica per la quale si è tanto battuto, e soprattutto dall’amore dei figli Juri e Barbara, insieme alla nuora Jolanda e al “collettivo” di nipoti, Mattia, Adriano e Martina Luna che sono stati il grande sollievo e riscatto della sua vita. Mentre scrivo Martina Luna, quindicenne e già straordinaria pittrice, deve avere terminato l’ultimo ritratto come un addio del nonno, adesso immobile, freddo e vinto da una malattia inesorabile, dopo una vita di ininterrotto movimento e inesauribile passione. Addio Eternauta comunista.

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