Adalbert Stifter, «Studio di nuvole», 1840
Alias Domenica

Adalbert Stifter, rifugi provvisori dalla vita

Adalbert Stifter, «Studio di nuvole», 1840

Scrittori austriaci «Il vecchio scapolo», romanzo del 1850, da Carbonio

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 8 settembre 2024

Nei paesi di lingua tedesca, il realismo ottocentesco esibiva una forte  resistenza a tematizzare i conflitti sociali e gli effetti negativi del processo di industrializzazione: «per “realismo” non intendiamo la nuda restituzione della vita quotidiana – scriveva Theodor Fontane in un saggio del 1853 – meno che mai delle sue miserie e dei suoi lati oscuri». Era un «realismo poetico», disse lo scrittore Otto Ludwig,  interessato a cogliere la verità nascosta sotto la superficie fenomenica delle cose. E’a questo ideale che si votò anche Adalbert Stifter, «uno dei narratori più strani, profondi, celatamente audaci e travolgenti della letteratura universale», scrisse Thomas Mann. Di fronte ai turbamenti della modernità, lo scrittore boemo opta per una scrittura programmaticamente inattuale, che mira a eliminare il filtro della visione soggettiva per riconoscere «le cose così come sono nel loro valore oggettivo (e non in relazione alle nostre passioni)».

A chi, come Friedrich Hebbel, lo accusa di essere anacronistico, di rifugiarsi nell’idillio e tenere lo sguardo attaccato alle piccole cose per eludere le grandi questioni che tormentano la loro epoca, Stifter risponde teorizzando una «mite legge» che si nasconde dietro la confusa varietà dei fenomeni, e governa sia la natura che la vita degli uomini «nelle più umili capanne come nei più grandi palazzi», manifestandosi al meglio non nel frastuono dei grandi eventi, bensì nei gesti e negli accadimenti più semplici e quotidiani. Eppure, i racconti di Stifter propongono sempre situazioni in cui questa «mite legge» appare messa in discussione e dalla superfice levigata di un idillio apparente affiorano angosce e inquietudini assolutamente moderne: avviene già dai suoi primi racconti, in particolare in Der Hagestolz, pubblicato per la prima volta nel 1844 e poi, profondamente rielaborato, nel 1850, versioni già entrambe apparse in italiano. Ora, l’editore Carbonio ripropone la prima col titolo Il vecchio scapolo (pp. 144, € 14,50) nell’elegante traduzione di Margherita Carbonaro, che offre al lettore anche un’utile introduzione.

Il racconto tocca temi che sono tipici dell’opera di Stifter e di tutto il realismo tedesco: la Bildung come adeguamento al principio di realtà, il matrimonio come garanzia della continuità della vita, la critica a forme di esistenza antisociali, qui impersonata nel carattere che dà il titolo al racconto: Hagestolz è un termine ormai un disuso per definire un vecchio scapolo un po’ bislacco, figura che compare spesso nella letteratura dell’epoca, per lo più trattata nei modi del comico. Stifter invece ne fa una figura tragica, segnata da una delusione amorosa che lo porta a barricarsi in una diffidenza paranoica verso il mondo. E tuttavia questo scapolo burbero e amareggiato si assume il ruolo di educatore del nipote Victor, rimasto orfano in tenera età e cresciuto con una madre adottiva e una sorellasta. Il giovane sta per lasciare la sua valle «materna», ma prima che possa fare ingresso nel mondo del lavoro è costretto dallo zio a fargli visita nell’isola in mezzo a un lago di montagna dove abita in una casa completamente isolata, tra la polvere e il disordine, con le finestre sprangate, le stanze chiuse a chiave, il giardino inselvatichito.

Per Victor, l’isola diventa una prigione, dove viene confinato per settimane senza sapere perché sia stato convocato. Solo l’ultimo giorno, lo zio gli rivela di aver salvato il patrimonio del padre e di averlo nominato suo erede. Lo invita inoltre a sposarsi e fare figli, perché chi non genera «una vita che perdurerà dopo di lui» è «perso per l’eternità».

In un’epoca di grandi sconvolgimenti, in cui gli individui si sentono esposti alla legge di un’inesorabile contingenza, la famiglia appare a molti come l’unico fondamento su cui possono poggiare «l’arte, la scienza, il progresso umano, lo Stato», come Stifter fa dire a un personaggio di Tarda estate, il primo dei suoi due romanzi. La famiglia soltanto redime l’esistenza individuale inserendola nell’ordine naturale delle «stirpi che discendono la loro lunga catena fino alle più recenti», ma questo riparo dalla contingenza è in Stifter continuamente minacciato, abitato da una dimensione selvaggia e distruttiva, o indifferente all’umana necessità di trovare un significato.

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