Dovrebbe iniziare già la prossima settimana, al Senato, l’iter di conversione in legge del decreto approvato mercoledì in Cdm e denominato dal governo «Carcere sicuro» proprio nello stesso frangente – non è ironia della sorte ma l’inevitabile tragedia annunciata da un’emergenza non più trascurabile – in cui si registrano ben tre suicidi di detenuti (a Pavia e Livorno, dove i due morti avevano già tentato di impiccarsi pochi giorni prima, e a Firenze Sollicciano dove la procura ha aperto un’inchiesta sul suicidio di un ventenne ed è anche scoppiata una fortissima protesta per la mancanza di acqua). Sono 51 i suicidi dall’inizio dell’anno. E, al di là di quanto annunciato dal ministro Nordio in conferenza stampa, il decreto che da ieri è in Gazzetta ufficiale, e dunque legge, mostra ancora di più i suoi limiti. Perciò, in tanti hanno espresso dissenso rispetto ad un provvedimento che di necessario e urgente non ha nulla o quasi, a cominciare da alcuni sindacati di polizia penitenziaria fino a tutta l’opposizione, passando per molti garanti territoriali dei detenuti. È mancata però, come ha fatto notare la senatrice Ilaria Cucchi, la voce del Garante nazionale.

«Del decreto Carcere sicuro – attacca Gennarino De Fazio, segretario della UilPa – di sicuro c’è solo che si tratta di un provvedimento farsa, inutile a risolvere la gravissima emergenza e, anzi, foriero di ulteriori effetti pesantemente negativi. Peraltro, che sia un pasticcio è dimostrato anche dalla scomparsa nel testo dell’originario art. 5, relativo agli incarichi di livello dirigenziali nel Ministero di Giustizia, pure annunciato dal Ministro Nordio in conferenza stampa e da lui illustrato in senso diametralmente opposto a quello prefigurato nelle bozze circolate».

Restano nel testo però le mille assunzioni di agenti penitenziari, la riforma del procedimento per la liberazione anticipata (senza altri sconti di pena), un paio di telefonate in più al mese da concedere ai detenuti, la riforma del codice penale che cerca di mettere una pezza alla cancellazione dell’abuso di ufficio, e l’istituzione di un albo di comunità d’accoglienza dove far scontare i domiciliari ai reclusi che non hanno un domicilio a disposizione.

Una norma, questa, che ricalca le misure prese negli anni del Covid, quando con il finanziamento della Cassa delle ammende si tentò di collocare in strutture di accoglienza disponibili le persone più indigenti. Eppure, come ricorda Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, «nella regione che conta un decimo dei detenuti d’Italia avevamo trovato oltre 90 posti. Ma per problemi legati alle valutazioni delle équipe interne agli istituti o della magistratura di sorveglianza, furono trasferiti solo 30 detenuti circa». Forse ora, con la volontà politica, si riuscirà pure ad arrivare alla cifra ipotizzata dal Dap, secondo il quale potrebbero essere circa 3 mila i reclusi accolti in questo tipo di strutture, in tutta Italia. Secondo il decreto si tratterebbe di detenuti adulti senza dimora o «con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico, che non richiedono il trattamento in apposite strutture riabilitative».

Peccato però che, come stabilisce lo stesso art. 8 del testo, comma 2, il trasferimento dei detenuti non sarà possibile prima dei «sei mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Sette mesi minimo, ammesso che il decreto diventi legge entro le ferie d’agosto. Nel frattempo la popolazione carceraria cresce: un anno fa c’erano 4 mila detenuti in meno nelle celle. E perfino qualche legge criminogena in meno. Ma Nordio insiste, e dai microfoni di Sky ribadisce: «L’amnistia sarebbe una resa dello Stato». Un resa evidentemente possibile in uno Stato democratico e antifascista, in quanto prevista dalla Carta costituzionale.