Le Nazioni unite hanno nominato l’avvocata della Corte suprema del Bangladesh Sara Hossain, la professoressa di diritto pakistana Shaheen Sardar Ali e l’attivista per i diritti argentina Viviana Krsticevic per condurre un’indagine sulla violenta repressione della rivolta iniziata a metà settembre.

DIFFICILMENTE però queste tre donne potranno entrare in Iran e portare avanti la loro missione. Finora sono morte almeno 469 persone (63 minori), 18mila gli arrestati, di cui 60 giornalisti. A finire nel mirino sono ora anche i reporter all’estero: il comandante delle forze speciali al-Quds dei pasdaran ha dichiarato che «tutti coloro che hanno lavorato nei media contro l’Iran, anche soltanto per un giorno, saranno prima o poi colpiti».

A proposito di informazione, lo storico iraniano Ervand Abrahamian, naturalizzato statunitense, ritiene che la fonte più affidabile sia «Bbc Persian, specialmente il suo programma giornaliero di 60 minuti». E sconsiglia «in modo assoluto di dar retta ai gruppi in esilio». Già docente a Princeton, Abrahamian è autore di numerosi volumi sull’Iran, tra cui il saggio storico Radical Islam: The Iranian Mojahedin.

Di questo gruppo ormai in esilio, noto con le sigle Mek e Mko, l’eminente studioso spiega che «si costituì negli anni ’60 come un movimento di guerriglia contro il regime dei Pahlavi. La maggior parte dei fondatori erano giovani laureati appartenenti alla classe media tradizionale. Interpretavano l’Islam sciita in modo nuovo, con una prospettiva quasi marxista, evidenziando la lotta di classe e l’uguaglianza sociale, nonché il bisogno di un cambiamento radicale per fare dell’Iran un paese libero. Sostennero pienamente la rivoluzione del 1978-79 e ottennero molto sostegno da parte delle masse, ma la neocostituita Repubblica islamica cercò di soffocarli e per questo nel giugno 1981 diedero avvio a una rivolta che non ebbe successo».

«FURONO COSTRETTI alla clandestinità e all’esilio. Si vendicarono dell’oppressione portando avanti attentati ai danni di personaggi di spicco della Repubblica islamica. In esilio, collaborarono con Saddam Hussein nella guerra Iran-Iraq (1980-1988) e per questo persero sostegno all’interno dell’Iran, anche se rimase operativa una rete clandestina che portò avanti attentati e raccolse informazioni».

Alla domanda di che cosa resta dei Mojahedin di un tempo, Abrahamian risponde: «Poco resta di questa organizzazione e nulla rimane dell’appeal che un tempo esercitava sulle masse. Oggi il loro punto di forza è la disponibilità illimitata di risorse, provenienti probabilmente dalla famiglia saudita. Con questo denaro hanno elargito decine di migliaia di dollari agli alleati dell’ex presidente statunitense Donald Trump, tra cui l’ex sindaco di New York Giuliani, affinché facessero presenza ai loro raduni». E infatti sabato scorso numerosi politici statunitensi hanno partecipato al raduno dei Mojahedin a Washington.

In Europa i Mojahedin sono in prima linea nelle proteste: «Fanno eco agli slogan del movimento delle donne, ma il movimento delle donne dentro all’Iran ha ben pochi legami, se non nessuno, dal punto di vista storico, organizzativo e sentimentale, con i Mojahedin».

EPPURE, la loro leader Maryam Rajavi ha incontrato, online, i senatori italiani presentandosi come presidente del Consiglio nazionale della Resistenza: «Quando sono stati obbligati a scegliere la via dell’esilio, i Mojahedin erano stati in grado di formare un fronte ampio chiamato Consiglio nazionale della Resistenza. Ma è successo una quarantina di anni fa. Poco resta di quel Consiglio. Quasi tutti gli alleati delle origini lo hanno lasciato, in parte per le decisioni arbitrarie prese dall’organizzazione, ma soprattutto perché è stata trasformata da organizzazione politica vera, genuina, in un piccolo culto basato sulla persona del suo leader Masoud Rajavi».

«Quando gli Usa invasero l’Iraq, lui sparì, non sappiamo se ucciso o ferito gravemente, a parlare in sua vece è la moglie Maryam. Si ripete così il mito dello sciismo: l’Imam (il leader) va in occultamento e non riapparirà fino alla fine del Tempo. In attesa del suo ritorno, a parlare è un suo rappresentante».