«Roma kills everyone», Roma uccide e la cosa strana – visto che si dice sia la città del cinema – è che i più colpiti sono proprio i registi. Quanti se ne sono visti arrivare a Roma, e perdersi in quel piacevole vivere da villaggio cinematografico stemperando il talento manifestato fino a allora? Magari è l’aria, o lo stress, o la sua mancanza, chissà. Di fatto perdersi nella capitale è facilissimo. Eppure. Abel Ferrara è un grande regista, su questo c’è poco da dire. A Roma ci si era già fermato qualche anno fa, e l’Italia è per lui un riferimento importante, da qui arriva la sua famiglia, ha fatto un Pasolini magnifico che ha irritato tanti per la sua irriverenza amorosissima nel racconto dell’ultima giornata di vita del poeta senza ipocrisie né complotti.

Ed ecco che invece decide di parlare di Roma, anzi no, dell’Esquilino, Piazza Vittorio, dove vive, il quartiere del cinema – ci abitano Garrone (da sempre), Sorrentino da molto meno e molti altri compreso l’amico e interprete di tanti film di Ferrara Willem Dafoe, nel doc dallo stesso titolo, Piazza Vittorio, presentato fuori concorso. E se come spesso di dice, un europeo non sa filmare i paesaggi americani, guardandolo vale anche l’inverso. «Colpa» ancora una volta di Roma?

Ferrara percorre le strade con la stupefazione del turista, migranti e vecchiette che li odiano, baristi senegalesi e ristoratrici cinesi, artisti, romani e non, i militanti di Casa Pound che illustrano le fondamenta del loro razzismo, tutti lì in quell’esempio nel bene e nel male di metropoli multietnica, una immagine da cui parte la sua riflessione sull’immigrazione. «Io non vivo in Italia, non vivo neppure a Roma, vivo a Piazza Vittorio, tra la Stazione e San Giovanni, tra via Merulana e Colle Oppio, non arrivo nemmeno fino a via Nazionale. So che esistono almeno cinquanta altre Roma bellissime ma io ho raccontato la mia, fatta di persone, cibo, musica e ristoranti. Ma non tutti i ristoranti… io vado in uno o in due» dice il regista che nel suo girovagare utilizza archivi del Luce e immagini prese col cellulare.

È chiaro che Piazza Vittorio è un set – il primo a renderlo tale era stato tanti anni fa Matteo Garrone nel magnifico Estate romana – ricostruito nella percezione di Ferrara senza pretese di un oggettività che sarebbe impossibile (e pure poco interessante). Lo dichiarano la sua presenza nelle inquadrature, i «making of» in cui contratta con le persone il prezzo per l’intervista, che sono anche gli spunti migliori del film. È però il disegno complessivo che si rivela fragile, e da un regista come è lui ci aspetterebbe altro che un diario aneddotico, quasi casuale, in cui che infila come perline le ovvietà sul posto.