«La necessità è la madre dell’invenzione» dice Abel Ferrara di Sportin’ Life, il suo nuovo film proposto a Venezia fuori concorso – la Mostra gli ha conferito ieri anche il Premio Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker – e nato come «un documentario sul processo di girare un documentario» come scherza lo stesso Ferrara nel film, rispondendo alle domande dei giornalisti che a Berlino, lo scorso febbraio, lo intervistavano sul suo Syberia, presentato dal regista insieme al protagonista e amico Willem Dafoe in concorso alla Berlinale. Ma i giorni della Berlinale sono anche gli ultimi della «normalità», pure se la preoccupazione per il coronavirus cominciava a prendere sempre più forma: «A Berlino però ricordo di aver visto una sola persona con la mascherina», racconta Ferrara.

TORNATO a Roma, dove vive da tempo, il regista come tutti si ritrova a fare i conti con la nuova realtà della pandemia, del lockdown. E così il suo film, «per necessità» diventa anche un racconto in prima persona di quell’esperienza, attraverso le immagini di «quella che sembrava l’ultima festa della storia» – la Berlinale appunto, o il concerto con la sua band che già avevamo visto in tour in Alive in France. Tutto questo insieme alle riprese di una realtà mutata repentinamente: le strade di Roma deserte che il regista riprende «quando, come tutti, andavo a fare la spesa» o quando, come racconta il montatore di Sportin’ Life Leonardo Daniel Bianchi, Ferrara attraversava Piazza Vittorio e l’Esquilino per raggiungere la sala di montaggio: «Ne avevamo tre. Una dove lavorava Abel, la mia e una a New York, del nostro collaboratore Stephen Gurewitz».

New York è infatti l’altra protagonista del film, la città dove Ferrara è nato – irrimediabilmente lontana con i confini chiusi – e prostrata dal virus, che entra nel documentario attraverso le immagini filmate con il cellulare dei notiziari, dei video su internet, finestra sul mondo fra le quattro mura di casa: «È questo il materiale che ai tempi di internet ci ritroviamo, quello con cui possiamo lavorare: le news, le fake news», o anche le allucinanti esternazioni di Donald Trump che appaiono brevemente, ma significativamente, nel film. «Abel ha chiesto anche a me di filmare tutto quello che mi sembrava interessante, pure se si trattava di riprendere la televisione con uno smartphone», aggiunge Bianchi. Cercare di intravedere l’America da Piazza Vittorio aveva senso, continua Ferrara, anche perché «gli Stati uniti sono il teatro e il palco a cui tutti si relazionano, a cui guardano per mettere in prospettiva le proprie vite».

E LO STESSO TRUMP è una sorta di «personaggio shakespeariano, che in qualche modo impone a tutti noi di prendere posizione». Inoltre «per comprendere realmente la realtà politica di un paese bisogna essere di quel posto, e da americano, che parla la stessa lingua di Trump, è cresciuto nella stessa città e negli stessi anni, aveva senso per me seguire le implicazioni politiche del covid in America», spiega il regista che in Sportin’ Life «accoglie» anche le immagini delle proteste per la morte di George Floyd, e chiude il film sull’immagine del suo omicidio.
Ma Sportin’ Life non segue una direzione esatta, precostituita, le sue immagini raccontano molto altro, dalla vita quotidiana alla musica amata da Ferrara, gli amici, la famiglia – la moglie Christina Chriac e la figlia Anna anche qui «protagoniste» – il rapporto con Dafoe, il processo creativo: «È il mio progetto ideale, girare senza una sceneggiatura, lasciare che le riprese siano dettate dal flusso»” delle immagini, dal ritmo. La scelta del documentario, dice il regista, è invece un modo per stare attaccato alla realtà, «un approccio al cinema a partire dall’idea non di ’far credere’ qualcosa, di raccontare una storia, ma di fare un percorso, un viaggio verso la verità, qualcosa che per me ha le sue radici in Cassavetes, De Sica, si tratta di una continuazione di quel genere di lavoro».

UN RACCONTO della realtà che nasce dalle restrizioni imposte dal lockdown, e diventa anche un’occasione per guardare indietro, ai propri film, al lavoro di una vita: «Se c’è un aspetto positivo di questa tragedia è che mi ha consentito di fermarmi per riflettere».