Nel palinsesto della Settimana della Critica, a Venezia, si affaccia il Brasile, il suo contesto torrido, bruciante, in balia di contraddizioni, sperequazioni, sommovimenti confusi, e soprattutto il carattere ardente, sensuale del suo cinema recente: È A salamandra di Alex Carvalho, un melò salmastro, i cui tempi si rallentano, diluiscono nel rumore e nel movimento incessanti, spossati del mare e in un che di vento a dissimulare l’effetto implacabile, scialitico del sole.

TANT’È che Catherine stesa sulla spiaggia, non può che, come salamandra, bruciare, epidermicamente, prima che metaforicamente, in corpore, per estrema passione. E in tutto ciò, in questa storia d’amore tra lei, borghese, francofona, un po’ avanti con gli anni e il giovane proletario Gil, c’è come una ritualità, un’ostensione della scena, delle proprietà organolettiche e compositive della scena: il corpo del cinema offerto in sacrificio per noi, in un discorso di laicizzazione del sacro (e viceversa), di incorporazione di una qualche passione cristica (la cicatrice che ha Gil sulla schiena, a un tratto baciata dalla devota, dalla penitente) alla passione tutta carnale che è soprattutto di Catherine. Si tratta del rito dei corpi che si mostrano, si ungono (di crema abbronzante), si guardano allo specchio mentre si provano costumi da bagno, vengono lavati (il corpo vizzo, infermo di un vecchio), si compenetrano in continuazione, dichiarando la dimensione entro cui si muove la macchina da presa, quella carnale.

DA QUESTO punto di vista c’è da dire che Carvalho, che ha un gran talento nel riprendere questi corpi facendone trapelare le inferenze psicologiche come fossero un alone, un’aureola della carne, forse avrebbe potuto essere più esplicito, più ossessivo nel concepire gli amplessi, che restano invece nell’ambito del canone: lei sopra che si prende l’orgasmo (Catherine diventerà sempre più avida di sesso e prepotente nel prendersene il piacere, e Gil sempre più funzionale al coito); poi lui sopra nella cosiddetta posizione del missionario; niente sesso anale, anche se a un tratto, con uno scatto irruento, Gil mette Catherine prona sul letto scatenandosi in una serie di matte botte alle natiche, ma senza avventurarsi nello «stretto sentiero di sodoma»; un po’ di cunnilingus ma evaso dalla macchina da presa che passa al volto gaudente di lei (Kechiche ci avrebbe sguazzato, in primi piani bagnati, schizzati, vischiosi); poi solo un accenno di fellatio, quando invece questa oralità avrebbe potuto portare il livello simbolico del film verso un’eucarestia tutta profana.

Il film gode di questa corporalità e della sacralizzazione della sessualità di cui Catherine porterà le stimmate, brucianti, dopo essersi svelata salamandra in un rito di iniziazione carnevalesco. Cerca ossessivamente il sesso sotto gli occhi impassibili dei santi, dei martiri raffigurati in quadri caravaggeschi: così il film ne acquista in ambiguità, prerogativa del simbolo, e in termini di ritmo, se è vero che non è più dominato dai dialoghi (i due amanti parlano due lingue diverse, anche in senso lato) ma dai corpi, dai coiti, dai gesti.