«Da quando i mujahedin hanno conquistato il potere, è tutto sotto controllo». Qari Nur Mohammad Hanif prima si nega, poi ci concede un’intervista da protocollo. È a capo del dipartimento dell’Informazione e della Cultura per tutta la provincia orientale di Nangarhar, terra di transito con il vicino Pakistan e osservatorio privilegiato dei sommovimenti nell’arcipelago jihadista.

GIÀ PORTAVOCE del governatore ombra dei Talebani nella provincia, quando i militanti islamisti facevano la guerriglia e non erano al potere, oggi ha un ruolo ufficiale nell’Emirato. Lo incontriamo nel suo ufficio ampio, con comode poltrone per i tanti visitatori che vengono a incontrarlo: il regista che cerca l’approvazione per un nuovo progetto, il candidato alla posizione che si è aperta nell’ufficio, portatori di tè, giornalisti locali con le briglie delle censura e il timore che, se scappa di pubblicare la parola sbagliata, scappa anche la rappresaglia dei nuovi governanti.

Al cancello di ingresso del Dipartimento ci apre il guardiano e, dietro di lui, un bambino con vestito bianco tradizionale e un gilet/wasqat marrone. Avrà 6 anni. Sulla spalla ha un’arma automatica. Entra con noi nell’ufficio e poggia l’arma sotto una sedia. È il figlio del numero due di mullah Arif, mullah Amanullah, uomo dallo sguardo censorio e inquisitorio tranne che con il figlio, tenuto in braccio e coccolato affettuosamente. Per mullah Qari Hanif non ci sono dubbi.

LA CONQUISTA DEL POTERE dei Talebani ha portato benefici: «prima c’erano leader corrotti, ora non ci sono più; più c’erano sequestri, ora non più; prima c’erano furti, ora non più; prima c’era insicurezza, ora non più». Prima c’erano anche i soldi, che ora non ci sono più, notiamo. «Per questo chiediamo che le riserve della Banca centrale afghana ci vengano restituite, che le sanzioni vengano tolte. Siamo tra i Paesi più poveri al mondo e abbiamo bisogno di sostegno». Come tutti i suoi omologhi, insieme ai leader più alti nella gerarchia dei Talebani, mullah Qari Hanif non perde occasione per battere cassa. Gli effetti del tracollo economico si scaricano tutti i giorni, pesantemente, sulla popolazione. Gli scricchiolii del sistema si fanno ogni giorno più rumorosi. I bisogni umanitari aumentano. Ogni contributo è importante.

LO INCONTRIAMO IL GIORNO successivo all’arrivo all’aeroporto di Jalalabad di un aereo con degli aiuti umanitari da parte dell’Iran. Gesto diplomatico significativo. Tehran da anni ha canali diplomatici aperti con i Talebani, di cui ha ospitato anche una «cupola/shura» a Mashad, nell’est del Paese, ultima grande città prima del confine con l’Afghanistan. Ha poi dato il «via libera» alla conquista territoriale della scorsa estate, restando però scontenta del risultato finale: la spallata militare, il monopolio del potere, la crescente influenza nel governo e nel movimento di Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno e leader dell’omonima rete che vanta una lunghissima storia di rapporti con i sauditi, oggi più freddi di prima, comunque preoccupanti per l’Iran, che comincia a sospettare anche di Islamabad, altra sponda tradizionale degli Haqqani. Senza scomporsi, mullah Qari Hanif scarta la domanda sul perché Tehran decida di far arrivare proprio a Jalalabad degli aiuti umanitari, anziché a Kabul. Si limita a ringraziare.

POTREBBE FINIRE per ringraziare anche la «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico, che ha sempre fatto della propaganda anti-sciita un elemento centrale di reclutamento, in Siria, Iraq, Afghanistan. E che qui è più forte che altrove, nel Paese. A qualche ora di auto da Jalalabad, nel distretto di Achin, fino all’inverno del 2019 c’era la base principale della «Provincia del Khorasan». Ci siamo andati nel novembre di due anni fa, pochi giorni dopo che, con un’operazione congiunta delle forze americane, afghane e – indirettamente – dei Talebani, la roccaforte è stata smantellata.

Villaggi poverissimi senza servizi, scuole, cliniche, acqua potabile, strade accessibili. Abbandonati dal governo centrale. Oggi come allora. Due anni fa sia Attaullah Khogyani, il portavoce del governatore di Nangarhar oggi rifugiatosi a Kabul, sia il governatore di Achin, Shafiqullah Sadat, si dicevano sicuri che la sconfitta di «Daesh» fosse definitiva. Non è stato così. «Omicidi mirati, esplosioni, attentati. Qui ogni giorno ce n’è una. Spesso c’è dietro Daesh, che vanta una presenza significativa in alcuni distretti di Nangarhar, è forte nella provincia vicina di Kunar ma ha operativi anche qui in città», ci dice un giornalista di Jalalabad che chiameremo Mohammed. L’aumento delle operazioni militari dello Stato islamico è un bel grattacapo per l’Emirato che rivendica il monopolio della violenza e il controllo su tutto il territorio.

Ufficialmente, i Talebani da una parte derubricano la minaccia a secondaria. Dall’altra non perdono occasione di ricordare quanto efficace sia la repressione. «Smantellata cellula a Kabul». «Operazione contro Daesh a Kandahar». «Seicento combattenti dello Stato islamico catturati dai funzionari dell’Emirato in soli 3 mesi».

MA QUI A JALALABAD tira una brutta aria. «Siamo preoccupati, certo. Quasi non passa giorno senza che ci sia un omicidio mirato», nota un osservatore politico, che preferisce rimanere omonimo. E che ricorda che il governatore talebano di Nangarhar, Mohammad Dawood Muzamil, ha vietato ai conducenti di ricsciò, il mezzo di trasporto più usato, di far salire passeggeri armati. Proprio dai ricsciò sono arrivati gli agguati delle ultime settimane. I passeggeri armati sembrano Talebani, i jihadisti «buoni» che oggi ti ritrovi al ristorante popolare Wali Babà o a quello più esclusivo Sultan, ma potrebbero essere militanti dello Stato islamico, i jihadisti «cattivi» che contestano ai Talebani di essersi venduti per il potere e di essere scesi a compromessi con gli americani. Proprio in funzione anti-Daesh, qui a Jalalabad i Talebani insistono a dividere i musulmani buoni – loro – da quelli cattivi, i salafiti. «È UN’OPPOSIZIONE molto forte. Per i Talebani ogni salafita è una minaccia. Ci vedono dietro un membro di Daesh. Ma non è così», continua il nostro interlocutore che preferisce l’anonimato e che ricorda quando, «ai tempi in cui eravamo profughi in Pakistan, già c’erano tanti religiosi arabi o sauditi che propagandavano il salafismo».

A Jalalabad «di salafiti ce ne sono molti, ma evitano di dirlo troppo in giro ora. È capitato che i Talebani entrassero in una moschea, portassero un uomo fuori e lo uccidessero solo perché considerato salafita». Da qui, la scelta di alcuni religiosi salafiti di farsi ricevere nell’ufficio del governatore Muzamil. E di riconoscere pubblicamente la legittimità dell’Emirato. Atto di obbedienza e sottomissione, «obbligato» secondo il nostro interlocutore. Per mullah Qari Hanif, a capo del Dipartimento di Informazione e Cultura, neanche lo Stato islamico è un problema: «non lo è stato quando stavamo sulle montagne, dove lo abbiamo combattuto e sconfitto, non vedo perché dovrebbe esserlo oggi che controlliamo tutto il territorio. Con l’Emirato, va tutto bene».

«NO, NON VA TUTTO BENE», replica indirettamente Sharbanah Barakzai, attivista che incontriamo in un’università privata. Per lei, «c’è stato un grande cambiamento da quando c’è il nuovo governo». Docente di diritto nella facoltà di Legge e scienze politiche, racconta di aver lavorato per molte organizzazioni non governative, «come consulente legale». Oggi però alcune associazioni hanno dovuto chiudere per mancanza di fondi, altre hanno ridotto al minimo le attività, «incontri, conferenze, lavoro nei territori, non c’è più nulla». Soprattutto all’inizio, «è stata molto dura per le donne. Ma non abbiamo mollato e non molleremo». È vero però che «molte hanno lasciato gli studi: il futuro è nero, non c’è prospettiva, tante ragazze non hanno più stimoli, non sanno cosa riserva loro il futuro. Avevamo aspirazioni che non possiamo più seguire. Sogni ora perduti. Tante ragazze pensano a come andar via. Qualcuna, di famiglia più povera, a come superare l’inverno».