Internazionale

55 anni dopo l’occupazione israeliana non cessa, si riorganizza

Lo storico israeliano Ilan Pappe

Intervista Parla lo storico Ilan Pappé: fallita la soluzione a Due Stati oggi sul terreno abbiamo l'Apartheid

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 4 giugno 2022

Celebrati in Israele, per i palestinesi e alcuni paesi arabi i giorni di inizio giugno 1967 sono la memoria di una nuova sconfitta devastante, non solo militare. Fu anche l’inizio dell’occupazione militare israeliana dei Territori che non ha ancora avuto fine. Ne abbiamo parlato con Ilan Pappé, storico israeliano di fama internazionale e docente all’università di Exeter, a margine delle conferenze che ha avuto in Campania nei giorni scorsi.

Sono 55 anni dalla Guerra dei sei giorni e dall’inizio dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. La storiografia tradizionale descrive quel conflitto come una operazione preventiva e una vittoria miracolosa dello Stato di Israele sugli eserciti arabi decisi a distruggerlo. È andata proprio così?

No. Oggi abbiamo a disposizione nuovi documenti e materiali d’archivio. Le autorità israeliane hanno desegretato i verbali di riunioni del governo (dell’epoca) prima della guerra e oggi guardiano a quel periodo con conoscenze che non avevamo prima. Senza dubbio Gamal Abdel Nasser creò una crisi perché Israele continuava ad attaccare la Siria alleata dell’Egitto. Ma il presidente egiziano minacciando la guerra pensava di poter ottenere una soluzione diplomatica alla crisi. Le vie d’uscita al nuovo conflitto esistevano ma i leader israeliani cercarono solo di guadagnare tempo per puntare allo scontro militare.

L’obiettivo principale era quello di occupare i restanti territori palestinesi?

Le forze armate israeliane nel 1967 hanno combattuto tanto nel Sinai ma la meta vera erano la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Si trattava di un obiettivo ideologico. Una lobby di generali e alti ufficiali israeliani continuava a contestare David Ben Gurion e altri leader politici. Li accusavano di aver impedito all’esercito di conquistare tutta la Palestina nel 1948. Questi militari, assieme ad importanti ambienti politici, hanno boicottato una possibile mediazione giordana volta a raggiungere una soluzione politica ed evitare quella che poi sarebbe passata alla storia come la Guerra dei sei giorni.

In poche parole si attendeva solo il pretesto giusto per andare in guerra.

Proprio così. Israele nel 1948 aveva preso il 78% della Palestina storica. E non aveva conquistato la Cisgiordania che ideologicamente rappresentava una sorta di cuore della nazione e permetteva di allungare la frontiera orientale fino al fiume Giordano. Ben Gurion fermò l’esercito più di una volta, all’ultimo momento, dal cominciare una guerra prima del 1967. Ben diverso è il discorso quando parliamo di Gaza. Israele la conquistò perché gli egiziani non la volevano, era un facile obiettivo a portata di mano.

Fatto sta che negli anni successivi al 1967, i territori occupati sarebbero stati collegati sempre più frequentemente all’idea di un compromesso territoriale con Israele sulla Palestina storica. Negli anni ’70, il leader palestinese Yasser Arafat cominciò ad indicare Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est come i territori di un futuro Stato di Palestina. Idea che si è poi consolidata con l’inizio della prima Intifada nel 1987 fino a sfociare nella soluzione a Due Stati, Israele e Palestina, sostenuta ancora oggi da una parte della comunità internazionale malgrado non appaia più realizzabile.

La soluzione a Due Stati è morta. In realtà è morta da almeno venti anni. La realizzazione dei progetti di colonizzazione ebraica e altre politiche di controllo del territorio, unite all’idea condivisa da un numero crescente di israeliani della Cisgiordania occupata come parte dello Stato, non permetterà a qualsiasi governo israeliano di riconoscere uno Stato palestinese indipendente e con una sovranità reale. Allo stesso tempo non c’è alcun palestinese che accetterà quel poco o nulla del territorio occupato che Israele potrebbe lasciare. Con parole semplici, possiamo affermare che 55 anni dopo l’inizio dell’occupazione, Israele e purtroppo il mondo non pensano ai diritti calpestati dei palestinesi ma solo a una riorganizzazione dell’occupazione.

Anche gli Accordi di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e quattro paesi arabi, sono una riorganizzazione dell’occupazione?

Gli Accordi di Abramo rappresentano il consenso di una parte degli arabi alla riorganizzazione dell’occupazione. Israele fa da ponte per questi paesi verso gli Stati uniti e in cambio ottiene il silenzio arabo sul proseguimento dell’occupazione.

La paralisi non sembra preoccupare nessuno

Purtroppo è così. A Israele lo status quo va molto bene e l’Autorità nazionale palestinese non lo vuole sfidarlo sul serio. Alcuni membri dell’Anp pensano che, a conti fatti, godono di privilegi che non vanno perduti.

La soluzione a Due Stati è fallita, non è più realizzabile. Ciò significa che si è fatta più solida la possibilità di uno Stato unico per arabi ed ebrei nel territorio della Palestina storica, democratico e senza discriminazioni?

In verità un unico Stato c’è già ed è quello dell’apartheid realizzato da Israele e ben descritto da Amnesty International qualche mese fa. Purtroppo, siamo ancora lontani dal cambiare il regime di questo Stato unico e dal realizzare uno Stato democratico per tutti e in cui i suoi cittadini siano uguali. Allo stesso tempo non possiamo escludere improvvisi e radicali cambiamenti in altre parti del mondo, come gli Usa, che comportino una netta trasformazione delle regole del gioco in Medio oriente.

 

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