«Agire subito!» è l’appello che accomuna i nuovi movimenti contro il cambiamento climatico. E hanno ragione. Ma se le risposte alle loro richieste tardano a venire, lo scoraggiamento è in agguato. Forse la transizione ecologica, quella vera, è un processo di lunga lena. Forse è un percorso da maratoneti, non da sprinter. E per prepararsi può aiutare la dimensione storica, la consapevolezza che tutto non si può schiacciare sul presente, che la questione ecologica ha una storia lunga, ricca e fertile, e quindi può e deve avere un futuro di lungo periodo, che impegnerà diverse generazioni.

Questo vuol essere il senso di un convegno sul 1973, l’anno della prima grande crisi petrolifera, l’anno che poteva essere di svolta raccogliendo quella mole incredibile di analisi e proposte offerte dalla «primavera ecologica» e che invece quella stagione fiorita soffocò, sprecando un’opportunità che ora stiamo pagando tutti.

«Stoccolma avverte: Fare presto se no sarà troppo tardi», titolava Giorgio Nebbia su Il giorno del 20 giugno 1972 il suo resoconto quotidiano dalla prima, e unica vera, Conferenza dell’Onu sull’ambiente umano, tenuta a Stoccolma in quella mirabile stagione. «L’ultima opportunità per la terra», titolava sempre nel 1972 il dossier Speciale ecologia de Le nouvel observateur. A questi allarmi, faceva eco un altro titolo dirompente, La grande svolta, di un saggio scientifico, sempre in quel fatidico anno, sulle necessarie e straordinarie prospettive delle tecnologie solari destinate a sostituire le «energie delle tenebre», ovvero i fossili inquinanti ed esauribili: e non era un proto-ecologista radicale e visionario a scriverlo, ma un illustre accademico e ingegnere, Agostino Capocaccia, potentissimo, addirittura coordinatore di tutti i presidi delle facoltà di ingegneria nazionali. Del resto il Consiglio d’Europa, due anni prima, aveva proclamato il 1970 Anno europeo per la Conservazione della natura, con convegni di studio in diverse nazioni (in Italia a Milano, con un migliaio di partecipanti). Sfociarono in un’impegnativa Dichiarazione che anticipava in gran parte i temi della successiva iniziativa dell’Onu. E quello stesso anno, il 22 aprile, per la prima volta fu celebrata con imponenti manifestazioni in tutto il mondo la «Giornata della Terra». Una stagione intensissima alimentata da una quantità impressionante di saggi, pubblicazioni scientifiche, proposte operative per sanare la frattura tra tecnica e natura, tra uomo e ambiente.

Giorgio Nebbia chiamava «primavera ecologica» quel periodo fecondissimo che il Centro di storia dell’ambiente della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, promotore del convegno del 7 novembre, ha approfondito in questi anni (in particolare con i dossier di Altronovecento dedicati al 1970 e al 1972 (1) (2). Rileggere quelle carte è di grande utilità, perché restituiscono un’analisi profonda della complessità della crisi ecologica, del suo intreccio con la crisi sociale e lo sviluppo ineguale tra i popoli, mettendo a fuoco, da un canto, la depredazione di risorse e materiali non rinnovabili e dall’altro il degrado inferto all’ambiente con emissioni tossiche nei suoli, nell’acqua e nell’aria, e perché svelano la pochezza della chiacchiere dei tempi odierni, il riduzionismo della crisi al solo cambiamento climatico e quindi al tema dell’energia, grottescamente declinato dal governo italiano come nuovo «Piano Mattei».

Se cinquant’anni fa la svolta ecologica fosse stata avviata, oggi ci troveremmo in un mondo più pacificato, con l’Occidente meno in affanno per il timore di dover rinunciare alla rapina nei confronti di paesi ricchi di risorse ma condannati alla povertà, con meno guerre dunque. E addirittura, forse, con la possibilità che i due popoli della martoriata Palestina possano convivere, avendo svelenito quel conflitto dalla pressione per il controllo del mare di petrolio che circonda quei territori.

Invece non fu così. Comprendere perché allora la svolta non ci fu è utile per evitare che anche l’attuale annunciata «transizione ecologica» si traduca in un colossale bluff, nell’ennesima occasione mancata. Alla riflessione sul presente è dedicata la seconda sessione del convegno. Con due linee guida: da un canto, rifuggendo dalla prospettiva illusoria, coltivata senza risultati in particolare nell’ultimo trentennio, che bastasse aggiungere il termine «sostenibile» allo sviluppo neoliberista imperante per far quadrare il cerchio; dall’altro, cercando di fare i conti con la complessità e la profondità della crisi (non solo climatica, ma anche ecologica e sociale) e con i grandi cambiamenti che evoca, sul piano culturale, innanzitutto, del funzionamento della democrazia e delle istituzioni, del superamento delle disuguaglianze tra i popoli e quindi della partecipazione e del conflitto e infine della qualità «ecologica» delle soluzioni tecniche (nel senso indicato da Giorgio Nebbia: riduzione delle risorse naturali impiegate e minimizzazione degli scarti), evitando quelle che lo stesso Nebbia chiamava«trappole tecnologiche».