1890, Lafcadio Hearn sbarca nel paese dell’estetica
Alias Domenica

1890, Lafcadio Hearn sbarca nel paese dell’estetica

Scrittori dal Sol Levante «Il mio primo giorno in Giappone», da Adelphi
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 luglio 2022

A Yokohama, porta di accesso al Giappone a seguito della ottocentesca riforma imperiale, si svolse la truce storia di amore e morte narrata da John Luther Long e destinata a diventare celebre attraverso il Madama Butterfly di Giacomo Puccini. Nella stessa città giunse nel 1890 Lafcadio Hearn, viaggiatore instancabile che nel nome portava l’omaggio all’isola greca di Leucade, dove era nato.

Adelphi pubblica ora nei «Microgrammi» Il mio primo giorno in Giappone (per la traduzione, dal gusto talvolta antiquario, e con un saggio interessante dal titolo «Semispeculazioni», di Ottavio Fatica, pp. 74, € 5,00), originalmente raccolto in Glimpses of unfamiliar Japan, uscito in volume nel 1894. Il titolo arriva in Italia a quattro anni di distanza dalla precedente raccolta di racconti Ombre giapponesi (curata sempre da Fatica per Adelphi).

La scrittura memorialistica si avvolge su uno scacco dichiarato: la mancata realizzazione di un diario a caldo, per cui i ricordi dell’arrivo, a distanza di qualche anno, sono «più fugaci che incantevoli». Hearn, che divenne giapponese sposando nel 1891 la figlia di un samurai, e assunse il nome di Yakumo Koizumi, fu una delle figure fondamentali della voga giapponista inaugurata in Europa dalla Grande Esposizione parigina del 1867, testimoniata nei romanzi di Judith Gauthier e Pierre Loti.

Il battesimo è quello di una corsa su un jinrikisha, ossia un risciò, dall’alto del quale il viaggiatore non può che comunicare a gesti. Tutto gli appare come «elfico», ossia: «piccolo, strano e misterioso». Le dimensioni ridotte delle case, i colori, danno al viaggio una impronta fiabesca. Lentamente l’osservatore comprende le regole basiche di quello che Roland Barthes definiva «l’impero dei segni». Il blu domina nelle tende dei negozi, come negli abiti da lavoro, il verde e il giallo sono banditi nella gamma cromatica, sui vestiti dei manovali ci sono gli stessi caratteri che trionfano sulle insegne dei negozi. L’ideogramma è la fonte di maggiore seduzione: «un carattere che parla e gesticola, un carattere animato», mentre gli alfabeti occidentali sono «senza vita».

Il kurumaya, ossia il conducente, che si chiama Cha, ha in testa il tradizionale grande cappello a fungo. Hearn, che molto ha letto e studiato sul Giappone, vede subito che gli artisti agiscono secondo criteri opposti a quelli europei: «le loro dita sono guidate dai morti», ossia ubbidiscono perfettamente ai criteri della tradizione e alle sue regole. I personaggi delle stampe di Hokusai compaiono, tridimensionali, durante la lunga escursione. Solo con l’aiuto del proprietario dell’albergo riesce a trovare le parole che servono a compiere il suo desiderio: visitare i templi. Ha inizio quindi un viaggio tra lunghe scalinate, leoni di pietra, sacerdoti.

Uno di loro gli chiede perché voglia fare una offerta al Budda, e lo scrittore risponde: «Io venero la bellezza della sua dottrina e la fede di coloro che la seguono», ribadendo la visione del Giappone come macchina produttrice di estetica, in ogni aspetto dell’esistenza: ciò che entusiasmò Hearn e lo guidò nella sua scrittura felice.

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