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Yehoshua, dietro i sublimi divieti, una questione di gelosia

Yehoshua, dietro i sublimi divieti, una questione di gelosiaGideon Rubin dalla mostra «Black Book» al Freud Museum di Londra, 2018

Scrittori israeliani Protagonista, una donna impelagata tra le maglie legali delle interpretazioni rabbiniche: «Il terzo tempio», quasi un copione teatrale, fatto di dialoghi, da Einaudi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 16 luglio 2023

È mercoledì pomeriggio e al rabbinato centrale di Tel Aviv gli impiegati sbrigano le ultime faccende prima della chiusura serale. Tra i molti uffici chiamati a sciogliere nodi legali, il Dipartimento delle agunot: da sempre sotto la lente della giurisdizione religiosa e al crocevia di interpretazioni rabbiniche, protagonista di garbugli normativi oltre che fonte di molti rilanci letterari – per esempio il racconto di esordio di Agnon (Agunot, 1908) – la agunah («legata») è la donna che, scomparso il marito senza che se ne possa accertare la morte, non può ricevere il divorzio, rimanendo incatenata al proprio stato, con implicita condanna a una liminalità senza uscita.

Nei meandri di una sottilissima casistica, un’imperforabile maglia legale blocca anche la donna convertita all’ebraismo che voglia unirsi in matrimonio con un discendente della «casa di Aronne», per antica genealogia imparentato con i sacerdoti al Tempio di Gerusalemme: del tutto sbarrata, anche in questo caso, la via nuziale e i figli, se ve ne fossero, condannati allo stato degradante di mamzerim, «bastardi». Questo l’innesco dell’ultima storia pubblicata da A.B. Yehoshua pochi mesi prima di morire, la cui traduzione italiana a cura di Sarah Parenzo esce ora da Einaudi: Il terzo tempio Novella in forma di dialogo (pp. 78, € 14,00).

A fare anticamera presso il Dipartimento delle agunot c’è Esther Azoulay, trentottenne parigina immigrata in Israele, figlia osservante di un ebreo algerino e di madre cattolica convertita all’ebraismo più per protocollo che per convinzione. Esther vuole conferire con il rabbino Nissim Shoshani, in carica a Tel Aviv, e deporre contro Eliahu Modiano, rabbino ortodosso ma fine intellettuale, vicino agli ambienti della Sorbona, avverso a ogni misticismo e, soprattutto, refrattario alla qabbalah pratica, ai suoi amuleti e ai suoi incantesimi, che giudica alla stregua di carabattole. Diventato guida spirituale di Esther con vagheggiamenti ben al di là dello spirito, Modiano si erge a tutela del suo ebraismo, in predicato di fiacchezza per la disinvoltura religiosa della madre e, con il fare spregiudicato di un Mazarino dell’ortodossia, induce Esther, già ebrea di nascita, a una conversione del tutto pleonastica che però, una volta compiuta, la rende ineleggibile a moglie dell’ebreo persiano David, discendente dalla linea sacerdotale. In questo modo, il pretendente è fuori gioco, la protagonista de iure una vedova bianca (il che non le impedisce di dare corso a un amore clandestino con lo stesso David) e Modiano vittorioso nell’inganno. La deposizione di Esther deve inoltre servire – doppiofondo di una vicenda a più risvolti, dove occorre staccare foglio da foglio senza che mai la coesione si sfaldi – a scalzare Modiano come candidato al tribunale rabbinico di Parigi: un’esclusione che farebbe scattare il giro delle sante poltrone, provocando, a cascata, una promozione per lo stesso Shoshani.

La storia ultima di Yehoshua, un soffio per ampiezza e formato, è in realtà attraversata da sottintesi, complessa per implicazioni, imprendibile nella definizione, quasi una sfida ai generi. L’autore la chiama «romanzo breve» e, nel sottotitolo, persino «novella». Eppure, costruita su una grata di fitti dialoghi che attraversano l’interezza del testo, somiglia piuttosto a un copione teatrale: i personaggi entrano ed escono di scena, ci sono luci, una scenografia scarna, didascalie, istruzioni per un ipotetico regista. Ma non basta: la narrazione corre lungo il confine di altre forme letterarie, dal dialogo platonico al racconto filosofico illuminista con qualche, non conclamata, strizzata d’occhi – più che vere somiglianze sono sprazzi o fluorescenze testuali – persino all’apologo, alla favola allegorica e al frammento. Rispettando, secondo il canone classico, le unità di tempo, luogo e azione, Yehoshua offre in piccolo, nel breve procedere dei turni di parola e nell’andamento costitutivamente più scheletrico della pièce, una gemma narrativa della durata di un fuoco fatuo, forse persino evanescente, ma dove si ritrovano, fissati nel nitore di un ologramma, nel carattere limpido e insieme insondabile della sua prosa, i tratti delle opere più grandi: dal magistrale disegno dialogico, alla trama che si fa e si disfa in bocca ai personaggi, senza mai prestare il fianco all’onniscienza narrativa, fino all’ironia in dosi sufficienti a non musealizzare la storia. Memore di temi cari a Yehoshua – la contradditorietà del reale, ma anche i discorsi doppi, le doppie intenzioni, le doppie morali, i passati controversi, le verità scomode, e soprattutto il motivo, uguale e contrario, del ripudio matrimoniale, centrale per esempio nella Sposa liberata – il racconto si muove su un fitto graticcio intertestuale: dal Cantico dei cantici a Dante a Yehuda Amichai a Shmuel Agnon.

Forse la vena più scoperta, l’inciampo più vistoso posto da Yehoshua nella distesa incontestata della tradizione riguarda proprio il titolo, con il rinvio evidente all’isotopia messianica, visibile già nella figura dell’amato David, che di secondo nome fa Mashiah (messia): fin da Ezechiele e lungo tutti i rami dell’escatologia ebraica, il terzo tempio sarà ricostituito per mano del Messia lì dove era stato distrutto dai Romani, sull’attuale spianata delle moschee. Ma il progetto di ripristino di Esther Azoulay – risolutivo per la sua personale impasse giuridica ma rivoluzionario anche per il ginepraio israelo-palestinese e davvero in sé messianico – prospetta la costruzione di un edificio dimesso, fuori dalle mura della Città vecchia, al riparo dalla sovrapposizione con i luoghi sacri delle altre religioni. Un’utopia pacifica, da sempre punto di fuga delle trame di Yehoshua, suggellata in queste parole ultime che, se non sono il punto più alto nella sua scrittura, hanno senz’altro la forza di un testamento.

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