La Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia per l’Assegno Unico e il Reddito di Cittadinanza, chiedendo di rimodulare i requisiti di residenza (due anni per il primo, addirittura dieci per il secondo, due dei quali consecutivi), perché discriminatori nei confronti dei cittadini Ue. La Commissione non ha competenze per esprimersi sui cittadini extracomunitari (che rimane l’aspetto più critico), ma il punto rimane sostanziale. Siamo di fronte a una violazione di principi che non solo hanno una stretta attinenza con il diritto comunitario ma che negli altri paesi europei, quando valgono per gli italiani, sono tradotti in criteri di accesso meno stringenti di quelli previsti dal legislatore italiano. Il caso più eclatante è sicuramente il Reddito di Cittadinanza. I dieci anni di residenza continuativa per beneficiarne sono chiaramente un modo per escludere dalla misura gran parte degli immigrati.

Non c’è paese europeo che abbia criteri così rigidi. In Francia l’accesso dei cittadini Ue al Revenue Solidarité Active (RSA) è condizionato alla residenza stabile ma per un periodo di almeno tre mesi. Per gli extracomunitari è richiesto il permesso di soggiorno (e di rimando l’autorizzazione a lavorare in Francia per almeno cinque anni). In Germania il requisito (anche dopo la recente riforma che ha istituito il Bürgergeld al posto dal tanto criticato Hartz IV) è di 5 anni di residenza stabile in caso il beneficiario non abbia mai lavorato, mentre scende al di sotto quando il reddito è troppo basso o si sia perso il lavoro. L’elenco potrebbe continuare e non troveremmo un paese così discriminatorio come l’Italia.

Il paradosso è che così facendo, se da un lato si limita l’accesso ai non italiani, dall’altro, come ha fatto notare la Commissione, si impedisce agli italiani che rientrano in Italia di fruire del Reddito di Cittadinanza. Paradossi a parte, siamo di fronte a un tipico caso di welfare chauvinism, ovvero l’idea di limitare l’accesso ai benefici della protezione sociale ai soli nativi e appartenenti alla comunità nazionale, escludendo gli immigrati o anche minoranze etniche e gruppi ritenuti non meritevoli a prescindere. Sono le posizioni delle destre securitarie che in questi anni hanno guadagnato terreno soffiando sullo scontro tra ultimi e penultimi, con i primi ritenuti responsabili del progressivo impoverimento dei ceti medi e della progressiva residualizzazione dell’offerta di protezione sociale.

La cittadinanza, l’etnia, la razza, addirittura la religione, diventano i criteri attraverso cui garantire l’accesso a prestazioni sociali sempre più residuali e condizionate al reddito. Ma è proprio questo il punto. I sistemi di welfare e le politiche sociali quando crescevano sono stati uno strumento essenziale non solo di protezione ma anche di integrazione, limitando la portata disgregante di discriminazioni e distinzioni che con i tagli alla spesa sociale sono tornati.

In passato partire dagli ultimi era il primo gradino di una progressiva inclusione nel sistema della cittadinanza che garantiva a parti consistenti di popolazione, compresi i ceti medi, di riconoscersi nei benefici e nell’utilità della protezione sociale. Nel corso degli anni, complice la necessità di mantenere in equilibrio la spesa pubblica a fronte di una domanda in rapida crescita, è finito per diventare il modo attraverso cui escludere e sanzionare gli aventi diritto, a cui si chiede prima di tutto di giustificare la propria meritevolezza.

Il risvolto di questo scivolamento è sotto gli occhi di tutti. I diritti sociali quando si allargano o tengono rispetto alle pressioni al ribasso della spesa sono sempre più condizionati, esasperando le forme di controllo e le narrazioni sui divanisti che tanto piacciono alle destre (in Italia anche a pezzi di quello che era il Centro-Sinistra).

Che cosa farà il governo Italiano in risposta alla procedura di infrazione della Commissione? Probabilmente niente, in attesa di una riforma che si propone di risolvere il problema della meritevolezza semplicemente limitando i sussidi ai poveri che non possono lavorare. Si tratterà di capire se tra questi potranno essere ricompresi anche i cittadini comunitari che non hanno un lavoro e non possono lavorare.

Sono numeri che certamente non mettono a rischio i saldi di bilancio, anzi destinati a migliorare per effetto dei tagli che si scaricheranno sui beneficiari cosiddetti “attivabili”, responsabili (colpevoli?) di avere un lavoro talmente pagato poco da avere bisogno di una qualche forma di integrazione al reddito, come succede in tutti i paesi europei che si sono dotati di uno schema di reddito minimo. In Italia non sarà più così. Ai meritevoli (cioè chi non può lavorare) l’assistenza, agli altri il lavoro a qualunque costo, anche al di sotto di standard minimamente decenti, in assenza peraltro di un salario minimo che è scomparso dai radar.