Viterbo, un carcere dove vige il terrore. Il governo intervenga subito
«Ho subito violenze, gravi lesioni corporali e torture varie». «Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una “cella liscia” e sono stato preso a pugni. Ho la […]
«Ho subito violenze, gravi lesioni corporali e torture varie». «Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una “cella liscia” e sono stato preso a pugni. Ho la […]
«Ho subito violenze, gravi lesioni corporali e torture varie». «Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una “cella liscia” e sono stato preso a pugni. Ho la testa piena di cicatrici». «Hanno tre squadrette solo per menare detenuti». «Aiutatemi ad andare via da questo carcere». «Se dico qualcosa qua mi menano». «Qui si cerca di sopravvivere alle ingiustizie e restare al proprio posto, sempre con i nervi saldi. Sempre più torno a convincermi di trovarmi in un mondo infernale. Si ricevono umiliazioni da parte delle guardie quando nelle perquisizioni che effettuano settimanalmente lasciano la tua cella sottosopra… La divisa che indossano dà loro un potere, non dà loro nessun onore e possono quindi infierire sul detenuto, come e quando vogliono, renderlo indifeso… sono diverse le storie di percosse che han subito alcuni detenuti della mia stessa sezione e rimangono celate nel silenzio. Qui si vive con la paura individuale, il buio, gli incubi. Per ora ancora sopravvivo, ma quando uscirò da questa struttura lotterò perché la verità esca fuori».
«Sono stato malmenato dalle guardie, picchiato forte da farmi perdere la vista all’occhio destro. Un trauma alla testa per le pizze e pugni che ho preso senza motivo perché ho chiesto più volte all’appuntato di poter andare a scuola e le guardie mi rispondono che a scuola non ci vai… Io gli rispondo che fate i mafiosi con me senza motivo… Passano quattro o cinque minuti e mi vengono ad aprire la cella… mi portano per le scale centrali da lì hanno cominciato a picchiarmi forte tra calci, schiaffi, pugni e sono intervenuti altri con il viso coperto. Erano otto o nove mentre mi menavano dicevano noi lavoriamo per lo Stato italiano negro di merda perché non torni al paese tuo».
Questi sono soltanto alcuni degli estratti di lettere arrivate ad Antigone da differenti detenuti reclusi nel carcere di Viterbo nell’ultimo anno e mezzo. Estratti drammatici che ci possono far solo immaginare cosa significhi vivere nel terrore della violenza che da un momento all’altro si potrebbe abbattere sul proprio corpo, distruggendo la propria psiche.
Non è finita. Il 9 gennaio 2018 nel carcere Mammagialla di Viterbo si toglie la vita Abouelfetouth Mahomoud, vent’anni. Il 21 maggio Andrea Di Nino, trentasei anni, si suicida anche lui. Il 30 luglio 2018 si ammazza Assan Sharaf, ventuno anni. Tre suicidi in sette mesi non possono non destare allarme. Un brutto, nero 2018 che ha avuto una tragica appendice qualche giorno fa con l’omicidio di un detenuto da parte di un altro ristretto, sempre nella stessa prigione.
Il sistema carcerario italiano è articolato, complesso. Così come molte altre istituzioni, anche quelle penitenziarie si presentano in modo molto poco omogeneo. Vi sono luoghi dove l’impegno di direttori, poliziotti e operatori sociali è tutto orientato, tra mille difficoltà, a muoversi nella legalità. Dunque ogni generalizzazione sarebbe ingiusta e scorretta.
Detto questo, di fronte a tante lettere disperate, tre suicidi, un omicidio (anche se quest’ultima è un’altra storia) è dovere delle autorità pubbliche e della magistratura aprire i riflettori su quel carcere, restituire speranza a chi vive nel terrore, far entrare nel carcere Mammagialla di Viterbo i giornalisti, velocizzare le inchieste penali e amministrative che sappiamo essere pendenti, specializzare (come ha fatto la procura di Napoli) nuclei investigativi nei casi di abusi su persone private della libertà.
Il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi ha preannunciato iniziative in attesa degli esiti delle ispezioni in corso. Sarebbe importante che lo Stato si costituisca parte civile nel caso in cui i procedimenti penali vadano avanti.
La violenza diffusa è un modello antropologico di dominio sui corpi e non è solo la cattiveria di uno o di tanti. Il problema, sempre che si accerti che quelle violenze ci sono state (e sappiamo quanto è difficile accertarlo in un luogo chiuso, opaco, appartato quale è il carcere), è smantellare un modello dove lo spirito di corpo colpisce tutti e tutto, capire perché possa accadere che non ci siano persone in divisa o non che obiettino coscienza, che si ribellino alle illegalità. È necessario che l’inchiesta sveli il meccanismo della violenza, individui i complici oltre che i colpevoli.
*Antigone
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