Mancavano 15 minuti alle 18 di venerdì 6 ottobre quando l’associazione Sos Carceri ha lanciato l’allarme: «Hanno appena assassinato nel carcere del Litorale almeno 7 persone, tra cui i sicari di Fernando Villavicencio», il candidato alla presidenza ucciso lo scorso 9 agosto al termine di un comizio a Quito. Le voci sull’accaduto si rincorrono fino a quando, alle 9 di sera, il Servizio penitenziario nazionale conferma che i morti sono sei e sono proprio i sei colombiani imputati dell’omicidio: Andrés Manuel M., José Neyder L., Adey Fernando G., Camilo R., Sules C., John Gregore R. erano stati arrestati il giorno stesso dell’attentato.

«DOPO LA LORO DETENZIONE, era prevedibile che questi soggetti fossero in totale pericolo. Di conseguenza lo stato è completamente responsabile della loro vita e della loro morte», dice al manifesto Christian Zurita, il giornalista che ha preso il posto di Villavicencio come candidato del Movimento Construye nella tornata elettorale dello scorso 20 agosto. L’ufficio del procuratore ha infatti informato dell’esistenza di un ordine precedente per trasferire i sei imputati in un altro centro per garantirne la sicurezza. Ordine disatteso dal servizio penitenziario nazionale.

Immediatamente dopo la notizia è scoppiato così il terremoto politico: mancano infatti pochi giorni al ballottaggio delle elezioni nazionali. Come risposta, il presidente Guillermo Lasso ha annullato tutti gli impegni e convocato un gabinetto di emergenza. Nel giro di poche ore, ha ordinato il trasferimento degli altri sei prigionieri coinvolti nell’inchiesta, ha rimosso il direttore del Servizio penitenziario e lo ha rimpiazzato con il colonnello Fausto Cobo, ha ordinato la riorganizzazione del comando di polizia e l’arresto del direttore della prigione in cui sono avvenuti gli omicidi. È un terremoto istituzionale.

Ma i colpi di scena non sono finiti: la mattina di sabato 7 ottobre viene confermato che anche José M., un settimo detenuto arrestato sempre in relazione all’omicidio di Villavicencio, è stato trovato morto nella prigione El inca nel nord di Quito.

LO SCONCERTO È UNANIME. «È un grosso problema, perché questi sicari si erano appellati al diritto al silenzio e sapevano chi erano i mandanti, mentre il procuratore non è ancora stato in grado di identificarli», spiega al manifesto Ricardo Vanegas, avvocato di una figlia adottiva di Villavicencio ed ex deputato del partito di sinistra indigenista Pachakutik (oggi sostenitore del candidato alla presidenza di centro-destra Daniel Noboa). E non è l’unico punto che, secondo lui, non torna nell’inchiesta. Fin dalla fine di agosto, Vanegas ha infatti insistito nel chiedere che il telefono, il tablet e il computer di Villavicencio venissero esaminati dalla polizia. Secondo la testimonianza resa dallo zio del leader del Movimento Construye, il telefono è stato consegnato alla clinica dove venne trasportato il corpo dell’ex candidato. E da allora se ne sono perse le tracce.

POCHI GIORNI DOPO, l’avvocato ha allargato la richiesta anche ai cellulari del gruppo dirigente del Movimento Construye, le persone più vicine a Villavicencio. Nel documento inviato alla procura si legge che l’obiettivo era ottenere informazioni importanti su chi chiamò Villavicencio e indagare se alcuni di loro avevano avuto dei contatti con i sicari. Alla fine, la procura ha predisposto l’analisi di venticinque cellulari, che le sono stati consegnati però solo lo scorso giovedì. C’è anche quello di Christian Zurita, che condivide l’importanza di avere quante più informazioni a disposizione per una migliore riuscita dell’inchiesta, ma che è fortemente in disaccordo sulle modalità con cui è stata presentata la domanda da Vanegas.

«Se fosse stato interessato alla consegna dei telefoni, doveva fare la richiesta in forma riservata. Non pubblicamente, generando sospetti sul gruppo più intimo di Fernando e facendo pensare che siamo noi i responsabili dell’omicidio», dice Zurita. Per lui, l’obiettivo di Vanegas è chiaramente di sfruttare la vicenda per il proprio tornaconto politico. Di contro, l’avvocato sostiene di agire nel pieno interesse della sua cliente, cercando di orientare l’inchiesta.

L’ULTIMA GIRAVOLTA di questa intricata vicenda arriva domenica mattina, quando una nuova testimonianza viene rilasciata nel complesso giudiziario nel nord di Pichincha. I dettagli non sono stati divulgati dalla procura, ma sembra che contenga rivelazioni su chi avrebbe dato l’ordine di uccidere Villavicencio, la logistica dell’attentato e la somma pagata per commettere il delitto. «Quello che quest’uomo ha detto è che il crimine è connesso al governo di Rafael Correa», aggiunge Zurita, ricordando che, prima della morte, Villavicencio aveva denunciato un possibile attentato contro di lui, indicando espressamente come mandanti quattro ex-deputati della Rivoluzione cittadina e uno del Partito sociale cristiano.

La reazione di Correa è stata immediata. L’ex presidente ha denunciato un complotto contro il suo partito, la Rivoluzione cittadina: «Lo avevamo detto: uccidono Villavicencio, ritardano l’indignazione di un mese, uccidono tutti i sicari tranne uno, lo tengono in una caserma e lo spingono ad accusarci a cinque giorni dal voto. Ogni cosa pur di impedirci di vincere», ha scritto l’ex presidente sui social media.

FRA OMICIDI NELLE CARCERI, una scorta di polizia del tutto insufficiente e le rivelazioni dell’ultimo minuto, è evidente che l’immagine dello stato che emerge dell’inchiesta è tutt’altro che rassicurante. «Fin dall’inizio ci sono cose che non quadrano», riassume al manifesto Daniel Ponton, docente della scuola di Sicurezza e difesa dell’Istituto di alti studi nazionali. Ponton è convinto che l’omicidio stia rivelando l’esistenza di un gruppo di interesse fra politica e criminalità organizzata che sta facendo di tutto per insabbiare il caso.
L’immediato coinvolgimento dell’Fbi nelle indagini preliminari e la promessa del segretario di stato americano Blinken di una ricompensa fino a 5 milioni di dollari per chiunque dia informazioni utili non sono che una riprova dell’inaffidabilità delle forze di sicurezza ecuadoriane. «Queste eventuali informazioni saranno gestite direttamente dal governo statunitense, che quindi non so fida della polizia ecuadoriana», dice l’esperto.

Ora che la fase delle indagini preliminari si è conclusa, si vedrà se il processo vero e proprio saprà gettare luce sulla intricata rete di complicità che sta coprendo i mandanti.