«Fatti Telegram». È il consiglio (interessato) che gli attivisti iracheni dispensano quando devono discutere questioni sensibili: la app di messaggistica, con sede a Dubai, è ritenuta – non solo in Iraq – molto più sicura di WhatsApp. La usano per organizzarsi, per scambiarsi informazioni, notizie, per accedere a canali indipendenti.

Da domenica non possono farlo più: il ministero per le comunicazioni ha sospeso la app citando questioni di «sicurezza nazionale» e presunti «leak di dati sensibili» su alcuni canali non meglio specificati. Il governo – dice – ha chiesto a Telegram di chiudere le piattaforme responsabili «ma la compagnia non ha risposto».

IERI A DISCUTERE del blocco sono stati i partiti del Coordination Framework, coalizione sciita filo-iraniana che – al pari della sinistra irachena – utilizza canali Telegram per diffondere notizie e propaganda. Pare che al meeting avrebbe preso parte anche il primo ministro al-Sudani, che era stato indicato premier proprio dalle forze sciite filo-Teheran.

Intanto la app resta spenta, a confermarlo la piattaforma di monitoraggio NetBlocks: Telegram è raggiungibile solo dalla regione del Kurdistan in Iraq. Insomma, l’esecutivo sarebbe preoccupato per la privacy e «la libertà di espressione dei cittadini». Eppure non è la prima volta che Baghdad interviene sulla rete internet, citando «ragioni di sicurezza» o arrivando a giustificare i blackout con il tentativo di impedire agli studenti di copiare agli esami di fine anno.

Molto più spesso i blocchi sono stati attivati durante i periodi più intensi di protesta popolare, nella rivolta di piazza Tahrir (2019-2020) e nelle sollevazioni cicliche nel sud del paese, ogni estate in piazza a manifestare contro devastanti blackout elettrici con 50 gradi di temperatura, nonostante miliardi di barili di petrolio gli scorrano sotto i piedi.

La scusa della libertà di espressione regge poco. Anche alla luce dei disegni di legge che il governo ha recentemente portato in parlamento e definiti il 18 luglio scorso da Amnesty International e Insm Foundation for Digital Rights in Iraq un serio rischio per i diritti di parola e manifestazione.

LA PRIMA PROPOSTA darebbe alle autorità irachene il via libera legale per perseguire chiunque considerino colpevole di violare la morale e l’ordine pubblico, ovvero «insultino un rito o un simbolo o una persona oggetto di santificazione e venerazione» (da notare che in Iraq spesso religione e politica vanno a braccetto, con leader religiosi che vestono i panni dei capi politici). La pena: fino a 10 anni di prigione e multe da 10 milioni di dinari (7mila euro). La stessa legge garantirebbe alle autorità di vietare raduni pubblici, senza indicare i criteri di «legalità» della protesta.

La seconda è dedicata ai «crimini cyber», contenuti pubblicati online e critici delle istituzioni nazionali e religiose. Si rischierebbe l’ergastolo e multe da 50 milioni di dinari (35mila euro). Il problema, pare chiaro, non è certo Telegram.