Gianfranco Viesti, economista all’università di Bari, perché ritiene “iniquo e pericoloso” togliere il “reddito di cittadinanza” a 660 mila persone ritenute “occupabili”?
È pericoloso perché, con la crisi energetica, siamo in un momento in cui potrebbero cadere in povertà altre 750 mila persone in aggiunta a quelle che già ci sono. Lo dice il rapporto Svimez. Le spese di riscaldamento e per l’alimentazione sono incomprimibili e l’inflazione colpisce i più poveri. Il taglio del “reddito” è iniquo perché colpisce persone che, a mio avviso, hanno acquisito il diritto all’assistenza. Assistenza non è una parolaccia, è un segno di civiltà, di solidarietà sociale e di una cittadinanza più coesa. Garantire un minimo vitale a persone che ne hanno maggiore bisogno è giusto, oltre che necessario.

Campania e Sicilia hanno la quota maggiore di beneficiari del “reddito”. Per le destre preferiscono il “divano”, nozione coniata a suo tempo dal Movimento 5 Stelle. Ma è proprio così?
Fossero solo le destre a dirlo. Lo dice anche un ex segretario del Pd come Renzi che ha annunciato un referendum per abolire il “reddito”. Non c’è una preferenza per il divano. In primo luogo, come ha mostrato la Commissione Saraceno nell’ottobre 2021, ci sono difetti di costruzione della misura che non favoriscono la transizione al lavoro, oltre ad escludere molte persone dai benefici.

Il governo Meloni si è dato tempo fino ad agosto 2023 per riformare le politiche attive e trovare lavoro e formazione a chi perderà il reddito. Ci riuscirà?
A me pare che serva un tempo molto più lungo perché i numeri sono grandi, la domanda di lavoro è scarsa, specie nei territori più difficili, e i servizi per l’impiego vanno potenziati. Inoltre, bisogna fare attenzione a dire che “il lavoro libera l’uomo” quando sappiamo che, in assenza di un salario minimo, ci sono lavori sottopagati e precari. A Sud un dipendente su 4 è precario, dice Svimez. Tra gli “occupabili” a cui si vuole togliere il “reddito” ci sono anche lavoratori poveri. Va bene cercare una transizione verso un degno reddito da lavoro, ma senza lasciarli in mezzo a una strada.

Svimez sostiene che, nonostante il Pnrr, nel 2024 il Sud avrà un pil inferiore dell’8% rispetto a quello che aveva prima della crisi del 2007. Cosa significa questo per lei che ne ha studiato l’impatto?
La crisi in cui stiamo entrando, con tante incognite, è molto cattiva perché colpisce i più deboli, che sono di più al Sud. La strada maestra è potenziare i posti di lavoro in attività industriali e terziarie al Sud. Ma qui c’è la pecca più grossa del Pnrr. Fa bene sulle ferrovie; per le imprese fa molto ma male. Destina quasi 40 miliardi in incentivi alle imprese ma rinuncia a orientare gli investimenti: non solo dal punto di vista della creazione di occupazione e della parità di genere, ma anche territorialmente. Sostiene le imprese dove sono ma non favorisce il loro sviluppo dove non ci sono.

Molti esperti sono preoccupati per i tempi previsti (luglio 2026) per la conclusione di tutte le opere e la capacità di spendere le risorse del Pnrr. Cosa ne pensa?
Il ministro Fitto ieri ha detto cose sensate. Certo, nell’ultimo anno c’è stato una imprevedibile impennata dell’inflazione, il costo delle opere è aumentato. Non è colpa di Draghi che, anzi, ha stanziato risorse aggiuntive per coprire i costi. Ma Draghi ha sottovalutato la necessità di potenziare le amministrazioni. In questo, il Pnrr è ideologico: presume che con semplificazioni e digitalizzazioni le amministrazioni diventino molto più efficaci. Invece servono risorse umane giovani e di qualità. Il Pnrr non si pone il problema; forse perché le assunzioni nel pubblico non piacevano ai consiglieri dell’allora presidente del Consiglio. Sa che il 97% dei dipendenti del Comune di Catania ha più di 50 anni? Questo lo sapevano tutti quando hanno scritto il testo. Provo inutilmente ad attirare l’attenzione su questo da un anno e mezzo.

E il governo Meloni cosa vuole fare?
Vedremo. Loro sono entrati nella stanza dei bottoni, e li hanno trovati; ma sono stati tutti già premuti. Le decisioni le ha prese Draghi. A loro è rimasto il compito difficile di mettere in atto operativamente il Piano.

Taglio dello Stato sociale e iniquità fiscali con la flat tax ora, domani l’autonomia differenziata contro la quale lei ha steso con altri una proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare per rivedere gli articoli 116 e 117 della Costituzione. Perché hanno deciso di fare a pezzi questo paese?
Idee che vengono dal passato. La storia incredibile di come un’impostazione estrema dell’articolo 116 sia invece entrata nel dibattito politico, invece di essere subito rimandata al mittente. La Lega l’ha spinta, ma chi ha spianato la strada sono stati prima il governo Gentiloni a fine febbraio 2018, con l’allora sottosegretario Gianclaudio Brescia, e poi c’è stato il presidente dell’Emilia Bonaccini che – pur con richieste un po’ diverse – ha dato copertura politica a Zaia, Maroni e Fontana. La lega ha sfondato grazie all’azione di politici che pensavamo “giocassero nell’altra squadra”.

Perché nel dibattito politico a Nord lei ritiene che non si parli di autonomia differenziata?
Mi dispiace moltissimo perché sembra che sia una lite tra presidenti di regioni. È una visione pericolosa. Non si tratta solo di un conflitto tra Nord e Sud sulle risorse. Qui si vuole disegnare un paese completamente diverso, a coriandoli. Ed è tutto da dimostrare che i cittadini lombardi avrebbero vantaggi dall’autonomia differenziata. I politici regionali farebbero tombola, i cittadini non necessariamente.