«Stiamo adattando i metodi di combattimento in ogni zona di Gaza. Stanotte inizia il 2024. Gli obiettivi della guerra richiedono un combattimento lungo». Il 2023 dell’esercito israeliano si conclude con l’annuncio affidato al volto ormai noto del portavoce delle forze armate Daniel Hagari: migliaia di soldati tornano a casa.

CINQUE BRIGATE – la 460° e la 14° corazzate, la 261°, la 828° fanteria e la 551° paracadutisti – lasciano la Striscia in vista dei prossimi mesi di offensiva militare. Che il governo insiste «durerà mesi». Sei mesi, per l’esattezza, la durata della cosiddetta terza fase dell’operazione Spada di ferro, dopo la prima (bombardamenti a tappeto, ancora in atto) e la seconda (invasione di terra cominciata il 27 ottobre).

Nessuna speranza che il ritiro sia sintomo di un rallentamento, Hagari lo ribadisce: «Torneranno per addestrarsi e si riuniranno all’esercito (…) Alcuni riservisti torneranno dalle proprie famiglie e al lavoro». A rientrare saranno per lo più riservisti, una parte dei 300mila richiamati dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. La decisione giunge con mezza Striscia già occupata e con i combattimenti strada per strada con i miliziani di Hamas e i raid aerei che si stanno concentrando nella zona centrale e meridionale di Gaza.

Non senza difficoltà: la Sanad Agency di al Jazeera ha analizzato immagini satellitari raccolte tra il 24 e il 30 dicembre a Khan Yunis – il fronte attuale, a sud – che raccontano della mancata avanzata dei mezzi israeliani, fermi sulle loro posizioni per una settimana o costretti ad arretrare. Da cui l’escalation nei bombardamenti e la distruzione di quasi tutti gli edifici civili nella zona dell’East Park e della Moschea Abu Hamid.

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«Netanyahu ha parlato dell’intenzione di Israele di assumere il controllo del corridoio Philadelphia, il confine tra Gaza ed Egitto – ci spiega Yehuda Shaul, co-fondatore del movimento pacifista di ex soldati Breaking the Silence e oggi all’Ofek Center – Se è davvero così, non si può pensare ancora a una fine. Quello di cui si discute è il passaggio da una fase di assalto totale a una fase meno aggressiva». Una fase che vedrebbe non un abbandono delle aree ri-occupate ma un ridispiegamento dell’esercito lungo i confini orientali di Gaza e a sud: raid aerei più limitati e l’impiego di brigate di terra (2-3mila soldati l’una) per operazioni o zone specifiche.

«L’esercito ha bisogno di ridurre il numero di soldati per farli riposare e per l’impatto massivo sull’economia – continua Shaul – È la differenza tra correre una maratona e i 100 metri. Non penso ci sia una contraddizione tra i due annunci, anzi il contrario: il ritiro è necessario agli occhi di Israele a implementare la strategia sul lungo termine».

L’obiettivo resta fumoso, il risultato che possa far dire al governo Netanyahu di aver archiviato la vittoria. Dentro la società israeliana, ma anche dentro la stessa maggioranza, il suo significato varia. Distruggere Hamas, rioccupare mezza Gaza, rioccuparla tutta.

L’ESTREMA DESTRA detta la sua agenda. Con i fatti (facendo saltare il gabinetto di guerra della scorsa settimana, che avrebbe dovuto mettere sul tavolo il futuro della Striscia secondo Tel Aviv), e con le parole. Tra gli incendiari più attivi c’è il ministro delle finanze e leader del partito di ultradestra Otzma Yehudit, Bezalel Smotrich: «Israele – ha detto ieri – assumerà il controllo permanente di Gaza per garantire la sicurezza» attraverso «la presenza permanente di forze armate» e «la creazione di colonie ebraiche, spina dorsale della sicurezza, come lo sono oggi in Giudea e Samaria (termine biblico per la Cisgiordania, ndr)».

«Elementi importanti di questo governo – prosegue Shaul – vogliono le colonie, dal giorno dopo la fine dell’offensiva. E magari un trasferimento di massa della popolazione palestinese in Sinai. Per questo le persone iniziano a chiedersi quale sia lo scopo. Concordo con tali critiche: l’idea che si possa distruggere Hamas con le bombe non funzionerà. Hamas sarà sconfitto solo politicamente, se ci sarà un’alternativa ai suoi risultati. Temo che il modo in cui Israele gestisce la guerra, l’impressionante bilancio di vittime civili e l’enorme e sproporzionato uso della forza, non produrrà altro che odio nei cuori e nelle menti dei gazawi per una generazione a venire».

La stessa “benzina” che mantiene viva la rabbia dell’opinione pubblica israeliana, o almeno di una parte importante. Lo dice, ancora una volta, l’esercito, con il sostegno popolare che non cala e la carenza di atti di disobbedienza civile. Nemmeno l’alto numero di morti tra i soldati sembra sgretolare il supporto alla guerra: 172 uccisi, di cui 30 – sono i dati forniti ieri – colpiti da fuoco amico o da incidenti.

Un bilancio meno alto del previsto, secondo Shaul, e che in ogni caso è “annullato” dal 7 ottobre: «Con 1.200 persone uccise in un giorno, il bilancio di morti tra i soldati non è qualcosa che la società israeliana non possa più tollerare. Molti analisti pensavano che un numero alto di vittime come effetto dell’offensiva di terra avrebbe ridotto il sostegno alla guerra. Non vedo indicazioni in tal senso. È vero però che qualche voce si solleva. Essenzialmente su due aspetti: gli ostaggi, perché è chiaro a sempre più persone che il governo non dà priorità al loro ritorno; e l’assenza di discussione nel governo su una soluzione politica».

CRESCE IL MALCONTENTO, a sinistra dello spettro politico, ma la società appare ancora compatta. A dirlo è anche il numero di refusenik dal 7 ottobre: in tre mesi solo un obiettore di coscienza, Tal Mitnick. Avrebbe dovuto arruolarsi per la prima volta.

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«Ci sono due tipi di rifiuto – conclude Shaul – Alla leva e alla riserva. Mitnick ha rifiutato la leva. Forse qualcuno lo seguirà. Ma ciò che conta è il rifiuto dei riservisti, declinato drammaticamente se paragonato agli anni della Seconda Intifada. Perché calano? Per l’impatto del 7 ottobre: ho molti amici coinvolti nel movimento dei refusenik dal 2002 che sono tornati a servire dopo vent’anni. Ma anche perché l’esercito non li considera più: non li chiama quelli che si sono rifiutati di servire in passato».

Un modo per combattere efficacemente l’obiezione di coscienza: il movimento ha impatto quanto gli obiettori finiscono in prigione. Ignorandoli, Israele ha trovato il modo per renderli invisibili, nel pieno di un’offensiva mai così brutale.