Se volete conoscere una città immersa nei conflitti d’interesse, venite a Venezia (certo, ci sono anche motivi migliori per venirci). Se il sindaco è il principale imprenditore del territorio, le cui attività spaziano in lungo e in largo, può anche essere il più onesto e sobrio del mondo, e fino a prova contraria lo possiamo pensare, ma quel conflitto ricompare a ogni angolo.

Se poi i principali dirigenti della macchina amministrativa, e perfino vari membri del consiglio comunale, vengono dai collaboratori e dai dipendenti delle aziende del sindaco, si può avere più che l’impressione che Ca’ Loredan Farsetti – il municipio di Venezia! – sia stata trasformata in una succursale.

Al tempo della discesa in campo di Luigi Brugnaro, nel 2015, uno slogan degli oppositori diceva: Venezia ha bisogno di un sindaco, non di un padrone.

L’elettorato, tuttavia, l’ha scelto, quel “paron”, riconfermato nel 2020. Brugnaro è stato abile e fortunato. Ha colto l’onda di un populismo pratico, ha investito molto (ne ha i mezzi), si è trovato davanti opposizioni divise, velleitarie o intimidite, ha avuto dalla sua la fine dei tagli feroci agli enti locali (che avevano devastato le amministrazioni precedenti) e quindi ha avuto da spendere ingenti risorse pubbliche. Ha, poi, colpito con durezza la partecipazione e il decentramento togliendo ogni delega ai consigli di municipalità (solo perché in maggioranza di colore opposto al suo) e ha sciolto gli organi di partecipazione (consulte e forum) e ha imposto regolamenti d’aula molto svantaggiosi per le opposizioni.

Ma ha goduto, indubbiamente, di un vasto consenso, anche in aree popolari della città, oltre che in molte categorie d’interessi.

Da tempo le cose stanno cambiando, l’insofferenza per il modo prepotente dell’amministrazione di rapportarsi alla città fa da greve contrappeso alla distribuzione a piene mani di risorse e alla possibilità, grazie ai fondi romani ed europei, di produrre opere pubbliche. Salvo, queste ultime, sceglierle tra quelle che più importano alla maggioranza: a cominciare da uno stadio e un palasport che dreneranno centinaia di milioni.

A dispetto delle migliaia di abitazioni pubbliche vuote perché bisognose di restauro, della necessità di bonificare e rigenerare gli ambienti urbani e industriali, di tutelare l’ecosistema lagunare, di potenziare i servizi sociosanitari ed educativi.

Drenati quegli ingenti fondi in opere non cruciali, per recuperare risorse la giunta applica ticket ovunque può, sui passeggeri dell’aeroporto come sui visitatori della città (l’unica al mondo in cui si paga per entrare!), peraltro lasciandola in balia dell’overtourism pur essendo l’unico Comune italiano, grazie a una speciale disposizione di legge (inutilizzata dalla giunta), a poter disciplinare le locazioni turistiche che stanno svuotando di residenti la città.

È in questo quadro che giunge l’indagine della procura di Venezia e della Guardia di Finanza che, oltre ad arrestare per corruzione un assessore, accusa lo stesso sindaco, i suoi principali collaboratori e diversi dirigenti delle maggiori aziende pubbliche di concorso in corruzione.

Non avendo sentito il bisogno di dimettersi – come ampia parte della città chiede – con la sua amministrazione, nei prossimi mesi e forse anni, fino a quando non si rivoterà, Venezia si mostrerà al mondo intero con quest’ombra pesante addosso: non solo il vasto, ramificato conflitto d’interessi, ma una rete apicale inquisita a rappresentarla ai suoi massimi vertici e a trattare, in suo nome, ogni genere di affari, investimenti, progetti. Con quale credibilità?

Siamo garantisti, ma, in queste vicende, accuse come quelle robustamente fornite di materiali probatori avanzate da una procura solitamente equilibrata come quella veneziana non possono che sollevare profonde inquietudini e forte indignazione, mettendo a repentaglio l’affidabilità del sistema Venezia e l’immagine stessa di una città sotto gli occhi del mondo intero.