Tedros Adhanom Ghebreyesus ha lanciato ieri un nuovo allarme, sapendo che non sarebbe servito a fermare l’avanzata dei reparti corazzati israeliani nella zona orientale di Rafah e a scuotere i governi mondiali, sempre meno reattivi al contrario della società civile globale. Gli abitanti fuggono dalla città sul confine con l’Egitto. «Tra le 30mila e le 40mila persone hanno lasciato Rafah per Khan Younis e Deir al Balah, ma più di 1,4 milioni di persone rimangono a rischio a Rafah, inclusi 600 mila bambini», ha avvertito il direttore generale dell’Oms.

«L’OSPEDALE Al Najjar di Rafah ha già chiuso – ha proseguito Tedros – I suoi pazienti sono stati trasferiti altrove e il personale ospedaliero sta rimuovendo le scorte e alcune attrezzature per salvaguardarli».

Il carburante che gli ospedali aspettavano non è arrivato, le scorte disponibili non dureranno più di tre giorni. Eppure, una parte del gasolio e benzina occorrenti era a poca distanza, alla stazione di rifornimento di Abu Jarad. Ma le cannonate dei tank israeliani l’hanno fatta saltare in aria. Un video diffuso ieri mostra il bagliore rosso sprigionato dall’esplosione dei depositi di carburante e la stazione di servizio che sparisce. Non sono entrati neanche gli aiuti umanitari dall’Egitto. Contrariamente a quanto annunciato ieri mattina da Israele, entrambi i valichi verso Gaza, Kerem Shalom e Rafah, sono rimasti chiusi, ha denunciato l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi.

Kerem Shalom ha aperto pochi minuti per far passare un’autocisterna e qualche camion. Poi basta. Nessun movimento anche al terminal di Rafah occupato dai carri armati israeliani e dove i soldati a inizio settimana hanno issato la bandiera di Israele al posto di quella palestinese.

I COMANDI militari non hanno commentato il comunicato dell’Unrwa che boicottano da mesi. Piuttosto hanno comunicato il loro bollettino quotidiano di «successi» ottenuti nelle ultime ore. A Rafah Israele sostiene di aver ucciso 30 combattenti di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi, in aggiunta ai 20 di due giorni fa. Aggiunge di aver «eliminato» Ahmed Ali, presunto comandante di «forze navali» di Hamas che, comunque, dimostra di conservare ancora buone capacità offensive. Ieri ha indirizzato otto razzi verso il sud di Israele in aggiunta ai lanci dei giorni scorsi che hanno ucciso quattro soldati a Kerem Shalom. I suoi uomini per ora tengono bloccato in periferia l’avanguardia dell’esercito israeliano. Scontri a fuoco proseguono anche nella zona centrale di Gaza centrale così come i bombardamenti di aerei e carri armati israeliani in diverse aree della Striscia, non solo a sud.

Il portavoce militare Daniel Hagari, intervistato dal quotidiano Yedioth Ahronot ha annunciato che «è stato presentato un piano al governo per combattimenti a Gaza che dovrebbero durare un anno». Ha aggiunto che «i prossimi anni saranno difficili e dovremo spiegarlo sia all’interno sia all’esterno». Parole rivolte anche agli Stati uniti, principali fornitori di armi a Israele, che stanno ritardando, per la prima volta del 7 ottobre, la consegna di bombe ad alto potenziale – 1.800 da 910 chili e 1.700 da 225 chili – perché potrebbero essere usate contro Rafah.

IN EFFETTI a quello servono, e a bombardare il Libano del sud, non ci sono dubbi. Hagari ha cercato di sminuire le differenze con Washington – contraria, almeno a parole, a una offensiva ampia a Rafah – rimarcando che tra alleati i disaccordi si risolvono «a porte chiuse» e che il «coordinamento con gli Usa ha raggiunto una portata senza precedenti nella storia». Hagari in fondo non è lontano dalla realtà.
Malgrado i «contrasti» tra Washington e Tel Aviv sulla guerra a Gaza di cui i media riferiscono ormai da mesi, l’Amministrazione Biden usa sempre i guanti di velluto con il gabinetto di guerra guidato da Benyamin Netanyahu. Il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Matthew Miller, ha comunicato che «non è ancora pronto» il rapporto sulle violazioni di Israele nella guerra a Gaza che doveva essere consegnato ieri al Congresso. E non ha indicato una nuova data. Israele sta facendo pressioni enormi sugli Usa e altri paesi occidentali per sottrarsi all’accusa di «genocidio» alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia e alle critiche che riceve per violazioni dei diritti umani e crimini di guerra.

WASHINGTON inoltre sarebbe d’accordo su una «soluzione» israeliana per il valico di Rafah, rivelata ieri dal quotidiano Haaretz. Israele, ha scritto il giornale, intende negare ad Hamas il controllo della frontiera tra Gaza e l’Egitto, assegnando la gestione del terminal a una società privata statunitense. Il giornale non rivela il nome di questa compagnia formata da veterani dell’esercito americano, di cui si sa solo che ha già operato in diversi paesi del Medio Oriente sorvegliando siti strategici come giacimenti petroliferi, aeroporti, basi militari.
Si occuperà in particolare del monitoraggio delle merci che arrivano dall’Egitto. Tel Aviv ritiene che la perdita del transito di Rafah infliggerà un duro colpo, a ogni livello, anche economico, al movimento islamico. Quello che è certo è che l’occupazione del valico ha bloccato ogni uscita di persone dalla Gaza, anche di civili gravemente feriti. Secondo la Gaza Crossings Authority, tra 8mila e 10mila palestinesi sono usciti dalla Striscia negli ultimi mesi. Rafah era l’unico valico di Gaza non controllato da Israele, con il flusso di persone, merci e aiuti umanitari coordinati dalle autorità egiziane e palestinesi.

IL MESE SCORSO funzionari militari e di intelligence israeliani ed egiziani si erano incontrati al Cairo per discutere di Rafah senza raggiungere un accordo.