La famiglia di Hasib Omerovic, 37enne disabile in coma da fine luglio per un volo dalla finestra durante un controllo di polizia nella sua casa, aveva ottenuto l’alloggio popolare a Primavalle tre anni e mezzo fa. Una regolare assegnazione, in seguito alla richiesta al comune di Roma e l’attesa in graduatoria al pari degli altri aventi diritto. In precedenza aveva vissuto nei campi di Tor de’ Cenci e La Barbuta. La sua storia è quella di altre 700 persone identificate come rom che nella capitale, nello stesso periodo, sono riuscite a costruirsi una vita lontano dalle baraccopoli. Ottenendo una casa vera.

Un fenomeno che smonta l’idea per cui i rom sarebbero nomadi per natura o scelgano di vivere nei campi. Lo stereotipo è particolarmente radicato in Italia, definita nel 2000 dall’European Roma Rights Centre «il paese dei campi». Non a torto. Sono 110 gli insediamenti storicamente riconosciuti in cui vivono famiglie rom o sinte, per un totale di circa 12 mila persone. Altre 5.500 si trovano in insediamenti informali abitati in maniera transitoria.

I numeri vengono dall’Associazione 21 luglio, che si batte da anni per il superamento dei «ghetti monoetnici». A partire da un dato di fatto: le baraccopoli non sono il prodotto di una scelta, ma il segno dell’insufficienza delle politiche sociali e di un razzismo di matrice «culturalista». Lo testimoniano le stime sulla popolazione rom presente nel territorio nazionale: circa 180 mila individui. Nove su dieci non vivono nei campi.

La storia delle baraccopoli istituzionali inizia nella seconda metà degli anni Ottanta. Dopo la morte di Tito, per fuggire a violenze, persecuzioni e alla crisi che porterà al conflitto balcanico, molti rom abbandonano l’ex Jugoslavia. Quelli che arrivano in Italia finiscono nel sistema dei campi, creato su spinta di alcune regioni. Sarebbe dovuta essere una soluzione temporanea, ma è ancora là. Alla base c’era l’equivoco di voler tutelare una presunta identità culturale e nomade di quelle persone. Che invece cercavano sicurezza e accoglienza, al pari degli altri rifugiati politici.

Recentemente, però, si registra una positiva tendenza al «superamento» dei campi: è già successo in 28 casi dal 2019 a oggi, mentre per altri 23 i lavori sono in corso. Il concetto non equivale a quello di chiusura. Chiudere un campo significa sgomberarlo senza soluzioni alternative. Per superarlo occorre mettere in campo strumenti di ascolto e politiche sociali in grado di fornire autonomia e futuro ai cittadini coinvolti. Il primo passo è la garanzia del diritto alla casa.

A Roma sono state percorse soprattutto due strade. La prima autonomamente dai rom attraverso la richiesta di una casa popolare, al pari degli altri cittadini. La seconda con l’attivazione, grazie alle proteste degli abitanti dei campi e al lavoro della 21 luglio, di una riserva di alloggi per le situazioni di estrema fragilità. Meno successo hanno avuto i «bonus affitto» da spendere sul mercato privato introdotti dalla precedente giunta pentastellata. Troppo forte lo stigma sociale e troppo complessa la situazione degli affitti nella capitale.

«Il superamento dei campi sta avvenendo in molte città grazie al lavoro di amministrazioni di diverso colore – afferma Carlo Stasolla, portavoce della 21 luglio – È necessario mettere in pratica un approccio partecipativo e abbandonare quello etnico. Roma però è in forte ritardo. A un anno dell’insediamento la nuova amministrazione non ha prodotto alcun piano per superare le baraccopoli».