Uomini (e donne) a Kabul, nel Texas, e…
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
In Afghanistan una donna poliziotta incinta di 8 mesi è stata uccisa da una «banda talebana»: sono state diffuse in rete immagini raccapriccianti della sua «esecuzione» di fronte ai familiari. Alcuni «leader talebani» – si legge – hanno promesso che «apriranno un’inchiesta».
Dopo il «ritiro» da Kabul qui da noi qualche maschio dotato di statuto mediatico si è affrettato a alzare il solito dito accusatore: che cosa fanno le femministe per le donne afghane? Perché non «escono dal silenzio»? (Ricordo per esempio scritti del direttore del Foglio Claudio Cerasa e del giornalista Pierluigi Battista). In realtà le pagine del web e anche di alcuni giornali erano già piene di interventi, appelli, singoli articoli, iniziative solidali promosse proprio da quella vasta galassia di donne, gruppi, associazioni ecc. che in modi diversi si riconoscono nel nome femminismo.
La domanda piuttosto andrebbe capovolta: che cosa facciamo noi uomini?
Molti (compresi alcuni di quelli così in ansia sui comportamenti delle femministe) hanno per anni sostenuto l’idea di «esportare la democrazia», con il suo corteo di diritti per tutti e tutte, anche con le armi. Che dovremmo fare di più che la guerra (pure se spesso solo a parole) per il bene altrui?
Non manca naturalmente chi si ostina a pensarla ancora così, ma l’idea vacilla ormai da tutti i lati. Domenica ne parlava sul Sole 24 ore Sergio Fabbrini, arrivando a questa conclusione: «La sconfitta è stata resa più accentuata dal fallimento dell’idea, promossa a un certo punto, che si potesse usare la forza militare per esportare la democrazia in quel paese. Il ricorso alle baionette non basta per ovviare alle conseguenze della disfunzione istituzionale e dell’ambiguità morale».
Fabbrini critica soprattutto, giustamente, la politica Usa, e ragiona sulle peculiari caratteristiche dell’Afghanistan.
Ma – a parte il fatto che non mi sembra minore la corresponsabilità degli altri stati, europei e non, e della Nato, che hanno partecipato all’impresa – direi che la «lezione» afghana assume una valenza generale.
Che fare allora?
Una prima cosa, a proposito di «ambiguità morali», sarebbe impegnarsi più seriamente per rendere le «nostre» democrazie davvero coerenti con i propri conclamati principi. Forse così aumenterebbe il desiderio di imitarle anche dove non sono state sperimentate…
Nella repubblica supposta democratica del Texas è stata approvata una legge che vieta l’aborto dalla sesta settimana, persino nel caso che una donna abbia subito uno stupro o un incesto, e che sollecita la delazione «civica» verso chi aggirasse la norma.
Pare – lo raccontava ieri sul Corriere della sera Marilisa Palumbo – che quasi tutti gli Stati governati dai repubblicani vogliano accodarsi. La battaglia di chi si oppone, che vorrebbe rendere una norma federale il principio della famosa sentenza Roe v. Rade (1973) che sostiene la possibilità di abortire nelle prime 24 settimane, potrebbe durare anni, e forse essere perduta visto l’orientamento conservatore della Corte suprema creato dalle nomine di Trump.
Finora non ho visto uomini dotati di statuto mediatico scaldarsi molto per queste tendenze, francamente barbare. Tanto più che sono molto simili a quelle che si vanno diffondendo in paesi dell’Europa unita vicini a noi. E che anche sull’applicazione della «194» in Italia ci sarebbe da discutere.
Chi si definisce democratico dovrebbe finalmente «uscire dal silenzio» sul fatto che le spinte reazionarie oggi sono segnate dalla volontà di molti uomini – non senza amiche consenzienti – di riconquistare a tutti i costi il dominio sul corpo delle donne, perduto a causa della libertà femminile.
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