Continua a salire drammaticamente il numero dei decessi nella prigione di Rikers Island. Il complesso carcerario rintracciabile nell’omonima isola newyorkese a sole sette miglia da Central Park, conta il diciottesimo morto dall’inizio del 2022: si tratta del ventiseienne Gilberto Garcia, deceduto lo scorso 31 ottobre per una sospetta overdose all’interno dell’Anna M. Kross Center, la più grande struttura carceraria di Rikers.

QUALCHE GIORNO PRIMA, il 22 ottobre, era toccato a Erick Tavira, 28enne in custodia dal 15 giugno 2021 che si è tolto la vita impiccandosi. Il suicidio è avvenuto presso l’unità di valutazione di salute mentale dell’edificio George R. Vierno Center, una della dieci strutture di Rikers. Louis A. Molina, commissario del New York City Department of Correction, oltre a manifestare «le più sentite condoglianze alla famiglia, agli amici e ai cari del signor Tavira nel momento del dolore», ha sottolineato che il dipartimento sta «prendendo sul serio la salute e la sicurezza di tutti coloro che sono in custodia» e che condurrà «un’indagine preliminare su questa morte».

Oltre le dichiarazioni formali dell’alto dirigente, che ricordiamo essere subentrato nel ruolo il 16 dicembre 2021 su indicazione dell’allora neo eletto sindaco Eric Adams, resta un totale dei decessi di estrema gravità. Basti pensare che a Rikers si registrò lo stesso numero di morti a fine 2013 con una popolazione media giornaliera di 11.696 unità, mentre quest’ultimo dato oggi ruota attorno alle 5.560. Nonostante nell’ultima decade il quantitativo di persone condotte in prigione sia diminuito le condizioni di gestione del complesso sono peggiorate drasticamente: incuria e scarsa attenzione ai diritti dei detenuti hanno reso Rikers un posto invivibile e senza regole, dove le gang controllano parte delle strutture. Esemplare in tal senso la “Fight Night” documentata dal New York Times nel gennaio 2022.

A BILANCIARE IL TUTTO è da anni un movimento composito, costituito da familiari dei detenuti, cittadinanza, associazionismo e parte della classe politica locale, che spinge per la chiusura di Rikers. La discussione ha portato, nell’ottobre del 2019, il consiglio comunale di New York e l’allora sindaco Bill De Blasio a decretare la fine del complesso carcerario nel 2026. Decisione, slittata poi al 2027, che non ha certo minato la dedizione di donne e uomini che da tempo lavorano per chiudere una prigione assurta nella parte finale del secolo scorso a simbolo dell’incarcerazione di massa che interessa in particolare la comunità african-american.
In queste settimane gli appuntamenti pianificati dalle tante organizzazioni impegnate sullo stesso obiettivo si stanno intensificando in previsione della importante scadenza del 17 novembre, quando un tribunale locale dovrà esprimersi sull’eventualità del passaggio di Rikers dalla attuale gestione del dipartimento penitenziario di New York – quella gradita a Adams – a quella federale.

Tra gli eventi andati in scena spicca quello del 17 ottobre, quando vari leader religiosi della città si sono uniti in una veglia a lume di candela a Gracie Mansion, la residenza ufficiale del sindaco, a cui hanno ribadito l richiesta di chiudere il penitenziario. Con loro era presente anche Freedom Agenda, una delle più importanti organizzazioni comunitarie newyorkesi impegnata nella tutela delle persone direttamente colpite dal sistema carcerario. Il suo con-direttore Darren Mack, presente alla manifestazione racconta: «A Adams abbiamo sottolineato tutti assieme l’importanza di avviare la decarcerazione e al contempo di investire nei quartieri da cui storicamente giungono le persone che vengono rinchiuse a Rikers».

LA STORIA DI MACK È ESEMPLARE: ex detenuto proprio a Rikers, costruisce un riscatto personale che lo porta a diventare attivista per i diritti civili: «Sono nato a Brooklyn, nel quartiere di Bushwick. All’età di 17 anni sono stato arrestato come complice di una rapina e sono stato mandato a Rikers. All’epoca, parliamo dei primi anni Novanta, vi erano più di 21mila persone. É stata una delle esperienze peggiori della mia vita. Per sopravvivere, dovevi essere un predatore, dovevi mostrare un livello di aggressività inimmaginabile per non essere preda. Quell’insieme di violenza, deumanizzazione e brutalità, è stato uno dei motivi che mi hanno convinto a diventare un’attivista».

A spingere Mack ha concorso anche una vicenda familiare del 1944: «Mentre scontavo la pena, ricevetti una lettera da mio cugino. Dentro vi era un articolo di giornale che parlava di un film riguardante un nostro parente alla lontana, George Stinney Jr, che in meno di 33 giorni venne falsamente accusato, arrestato e dichiarato colpevole di un crimine che non aveva commesso da una giuria interamente composta da uomini bianchi. Venne giustiziato sulla sedia elettrica poche settimane dopo. Aveva solo 14 anni. Questo mi fece pensare che il nostro sistema giudiziario aveva erroneamente ucciso una persona, un ragazzino, il cui unico crimine era essere nero. È un “sistema” decisamente lontano dall’essere perfetto. E per gli afroamericani, è stato più imperfetto che per altri. Va abbattuto o cambiato».

OLTRE LE EMOZIONI generate da Carolina Skeletons, il film a cui si riferisce, Mack ha investito nel modo migliore sulla sua esperienza detentiva, divenendo successivamente avvocato e attivista di spicco nell’organizzazione JustLeadershipUSA, prima di fondare Freedom Agenda, un progetto dedicato alla tutela di persone e comunità direttamente colpite dall’incarcerazione, al raggiungimento della scarcerazione e alla trasformazione dell’apparato penitenziario. «Attraverso varie campagne – dice – cerchiamo di aiutare i detenuti. Anni fa abbiamo realizzato “Raise the Age” il cui obiettivo era di raggiungere il divieto di imputazione di 16enni e 17enni come se fossero adulti. Poi con #HALTsolitary cerchiamo di mettere fine alla pratica dell’isolamento e con “The Fair Chance for Housing Campaign” si tenta di evitare la discriminazione delle persone con condanne penali nella ricerca della casa, perché senza un alloggio durevole non si conduce una vita stabile».

«PER QUESTE E ALTRE campagne analoghe – conclude Mack – collaboriamo con altre organizzazioni. Perché l’obiettivo della più importante di tutte, ovvero #CLOSErikers, rimane immutato. Rikers Island, che tra i newyorkesi è conosciuta anche come Torture Island, va chiusa. È l’ultima colonia penale negli Usa: è stata ed è ancora per troppe persone una condanna a morte. Finché non sarà chiusa, in migliaia soffriranno e i morti aumenteranno».