Un’altra via per vincere sulla guerra?
In una parola La rubrica settimanale su linguaggio e società. A cura di Alberto Leiss
In una parola La rubrica settimanale su linguaggio e società. A cura di Alberto Leiss
La guerra in Ucraina ci sta mostrando, forse più degli altri conflitti seguiti al 1945, quanto sia tragicamente assurdo pensare di risolvere i contrasti tra gli Stati, i popoli, le culture, gli interessi economici, le visioni del mondo, affidandosi alla forza delle armi. Uccidendo soldati sconosciuti, ridotti a numeri e sagome da abbattere, e civili ridotti a effetti collaterali. Distruggendo città, campagne (e il grano «dono di Dio»), infrastrutture civili, guerreggiando nei pressi di centrali nucleari…Tutto ciò in un mondo dove molti governi, a cominciare dalla Russia, dispongono di bombe nucleari in grado di eliminarci tutti.
Un capo dell’esercito americano ha detto che questa guerra non potrà essere risolta con l’azione militare. Un generale italiano ha affermato che ci vorrà un altro anno di massacri perché sul territorio si creino le condizioni di un negoziato. Se vuoi la pace, devi vincere la guerra?
Consola che molti uomini disertino in Russia, e alcuni anche in Ucraina e altrove. È un fatto che molte donne con bambini e anziani siano scappate dall’Ucraina. Molte vorrebbero tornare. Alcune tornano. Molte altre si sistemano nei paesi che le hanno accolte.
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Le opinioni pubbliche oscillano. Hanno paura. Ma è ben presente anche un sentimento di giustizia per cui chi è aggredito ha il diritto di difendersi, e va aiutato. Il pacifismo si attiva generosamente. Ma fatica a ottenere un consenso, a attivare una «mobilitazione» (parola troppo intrisa di un linguaggio militare) in grado di premere su chi avrebbe il potere di agire per un cessate il fuoco. Per passare dalle bombe a qualche scambio di parole, proposte, domande capaci di ascolto. Mi chiedo se non sia venuto il tempo di porre la questione in altri termini, più radicali. La guerra è possibile perché la fanno coloro che la combattono, trovando giustificazioni considerate moralmente alte. È bello morire per la Patria. È ancora più bello morire per la libertà e la giustizia.
E invece no. Non è mai bello morire, per nessun altissimo ideale. Ancora meno bello morire avendo messo nel conto di uccidere.
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C’è una radice antropologica della guerra, senza guardare la quale forse non si riesce a uscire dallo schema mentale e sentimentale che la sostiene e la considera giusta.
Mi è già capitato di sostenere qui – come ipotesi da investigare – che questa radice ha a che fare con il regime simbolico patriarcale. L’onore virile è alla base del duello, e il duello – Clausewitz dixit – è alla base della guerra («La guerra non è altro che un duello su larga scala»).
Oggi si comincia a vedere anche da parte maschile – ma non basta ancora – che le violenze quotidiane contro le donne, gli stupri i femminicidi, sono agiti da noi uomini. Dipendono non solo da “patologie”, ma da quella cultura patriarcale che ci attraversa, diversamente, tutti.
Dovremmo vedere finalmente che anche la guerra è sostenuta da questa visione di noi stessi, degli altri e del mondo. Fare la guerra ci fa orrore, ma ci da anche forza, soddisfazione. Ci legittima come eroi, ci accoglie tra chi ci disprezzava persino se siamo un battaglione glbtqia+, come sta accadendo in Ucraina.
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Della guerra e dei suoi nessi con la virilità abbiamo discusso nella rete di Maschile plurale. Ne è nato un testo-resoconto, «Maschi e guerra», ed è stato avviato un confronto («Cominciando a discutere. Noi maschi e la guerra»), disponibili entrambi sul sito della rete. Proveremo a coinvolgere altri, altre, altr*: non cerchiamo adesioni a una tesi. Ma approfondire i sentimenti, le opinioni, le esperienze, le domande. Soprattutto tra chi la pensa diversament
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