Una telefonata che potrebbe costargli la presidenza. La trascrizione della conversazione di Donald Trump con il presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy, il 25 luglio scorso, è un’incredibile sequenza di crimini, dall’abuso d’ufficio alla violazione del giuramento presidenziale. Il tutto aggravato dalla promessa del ripristino di aiuti a un paese straniero, congelati alcuni giorni prima il colloquio. Un dolce ricatto. Come non procedere sulla strada dell’impeachment? Del resto era quello che aveva già deciso di fare la speaker della camera Nancy Pelosi due giorni fa, dopo aver a lungo resistito, prima che scoppiasse lo scandalo ucraino, alla spinta verso il procedimento di messa in stato d’accusa di Trump sostenuta con energia crescente dalla maggioranza dei deputati democratici.

La vicenda ucraina, nel suo clamoroso squadernarsi, appare più seria del Russiagate, peraltro finita in uno strano limbo dopo le audizioni in congresso del procuratore Mueller.

Ma c’è un paradosso evidente nella narrazione che i due casi propongono: Trump sarebbe contemporaneamente in sodalizio con Putin e con il suo avversario nella regione. The Donald è capace delle più sorprendenti giravolte, ma questa sarebbe abbastanza acrobatica. Fatto sta che, in un modo o in un altro, il Partito democratico, ormai a tutti i livelli, considera la via giudiziaria il percorso preferibile per mettere il presidente repubblicano alle corde, anzi adesso un tragitto addirittura obbligato. Una scelta inevitabile, per molte ragioni, ma purtroppo destinata ad assorbire il meglio delle energie proprio mentre i democrat, e il grosso dei candidati nelle primarie alla presidenza, stanno costruendo una campagna e una piattaforma politica di sostanza, intorno a punti forti e popolari, come il diritto alla salute per tutti e la gratuità dell’istruzione universitaria.

Per giunta, il caso ucraino, diversamente dal Russiagate, ha una caratteristica che i democrat più avvertiti valutano come gravida di grandi rischi per il loro partito stesso. Al centro della partita c’è un notabile di grande peso, ex vicepresidente degli Stati Uniti, nonché frontrunner nella corsa alla nomination. Joe Biden è accusato da Trump di aver fatto pressioni per il licenziamento del procuratore generale ucraino che stava indagando sulla società petrolifera Burisma, per cui lavorava il figlio secondogenito Hunter. Il motivo e il contenuto principale della telefonata. Adesso, a maggior ragione, dal punto di vista ucraino, le indagini nei confronti di Hunter riprenderanno con forza. E con un nuovo procuratore generale che – promette Zelenskiy al telefono con Trump – «sarà al cento per cento una persona mia, un mio candidato, che sarà votato dal parlamento e comincerà a lavorare da settembre. Lui o lei si occuperanno della situazione, specialmente dell’azienda a cui hai fatto cenno…».

Quindi mentre a Washington s’intensificherà l’accerchiamento intorno alla Casa Bianca, a Kiev crescerà il caso Biden in un gioco di rimandi reciproci, a vantaggio di Donald Trump più che di colui che era considerato come il suo più probabile sfidante democratico.

L’ulteriore complicazione è che tutto questo interviene sulla sfida in corso nel Partito democratico per la nomination. Biden sta perdendo visibilmente terreno rispetto a una partenza che lo vedeva solidamente in testa con ampio distacco rispetto a Elizabeth Warren, Bernie Sanders e agli altri sette concorrenti.

È andato giù nei sondaggi per sua inadeguatezza, ma anche perché tutti gli altri si sono coalizzati contro di lui, per riaprire una corsa altrimenti già segnata. Ora Warren è in fase si sorpasso. Che succederà nei prossimi dibattiti tra gli aspiranti alla nomination? Come si riverbererà la vicenda Biden sullo corsa presidenziale? Non ci fosse Trump, la vicenda del disinvolto secondogenito finirebbe, in qualche modo, al centro dello scontro tra democratici. Adesso si ergeranno a difesa di Biden, i suoi avversari?

Tutto questo sullo sfondo di una procedura per l’impeachment, che se prende impeto dopo il caso ucraino, deve comunque fare i conti con le resistenze di una minoranza non irrilevante di 31 deputati democratici eletti in distretti in bilico all’interno di stati rossi, prevalentemente repubblicani, che temono di irritare l’elettorato che vota loro ma che ha anche votato Trump. Che succede se Nancy Pelosi non raggiunge i fatidici 218 deputati richiesti? Attualmente si sono detti a favore 205. C’è ottimismo sul raggiungimento della maggioranza richiesta. Nel frattempo, Trump riprenderà a pieno regime la sua campagna vittimistica, proponendosi come preda di una caccia alle streghe da parte democratica. Il clima rovente farà decisamente passare in secondo piano i temi che dividono l’America e che per la prima volta vedono di fronte due opzioni davvero diverse di società e di governo della nazione.